mercoledì 7 agosto 2013

TRASPARENTE


Io vivo in una casa agiata.

Di vetro le pareti

per cantare all’alba di ogni giorno un nuovo sole

stelle sparse al mio soffitto

per incendiar d’amore le notti a primavera

pavimenti non ne ho

che calpestare l’aria è sempre stato il mio destino

 

Io vivo in una casa agiata

e tu da fuori puoi vedere

quel che sono stato

ciò che adesso sono

e indovinare infine

come ancora sarò.

 

lunedì 29 luglio 2013

FORSE

C’è un dolore sottopelle
col quale è saggio dormire
Si stempera lento
ora dopo ora
e giorni, mesi,
nuvole e stagioni
a danzarti intorno
sino a che non diventa
carne
dolente rossa tua ferita
 
Veleno sottile
il ricordo
non uccide
ma sacrifica intere vite
sull’altare dei forse.
 

 

VERTIGINI

 
Amarsi fu
come sporgersi da una vertigine
vincendo il vuoto
per renderlo polvere, acqua
forse terra
dagli orizzonti sfocati
 
Povere toppe
smascherate
rivelano antichi artifici
e la tela quotidiana
appare sbiadita garza
non più festa
da indossare.
 
L’amore
sai
si logora come veste
troppo usata
 

 

 

 

CHIEDI


 

Com'è la tua vita

hai chiesto un giorno.

 

Ho taciuto

pensando

ai tanti dopo di cui è fatta

nati inversi

ad ogni possibile prima

L'inerzia del dolore

non lascia tracce

a sanguinare.

 

Ma tu chiedi

chiedi ancora

forse un giorno

risponderò.

 

 

 

 

 

giovedì 6 giugno 2013

MOHAMED DANZERA' ANCORA


 
(in memoria di Mohamed Bouazizi – 29.03.1984 – 04.01.2011)

 




 

Quando mi laureai alla scuola centrale di informatica di Sfax non pensavo avrei potuto fare altro che quello nella vita, l'informatico. Sarebbe stato il mio destino, mi dicevo, la riscossa per la mia famiglia, i cui sacrifici per farmi studiare non sarebbero andati delusi.

Ma mi sbagliavo.

Allah sa bene quanto mi sbagliavo.

Perchè giorno per giorno nulla mi cambiava intorno, il sole era sempre più caldo, la miseria sempre più grande, e per lavoro nulla più di un semplice banco da ambulante abusivo di frutta da vendere a poco prezzo a gente più disperata di me.

Poco pane e tante rughe alle mani, poco orizzonte come destino.

E Tunisi sempre troppo lontana.

Così coi pochi soldi risparmiati un giorno ho cercato di comprarmi il diritto a vivere anch'io una vita migliore, per porre fine a questa precarietà.

Una licenza, un permesso, solo due timbri su un foglio di carta per assegnarmi la dignità di esistere, questo chiedevo.

Ma un potere ottuso, stupido prima ancora che autoritario, mi ha rifiutato, deriso ed emarginato come fossi feccia. Anche il carro con le poche cose che avevo è andato perduto, ed ora mi trovo con gli ultimi dinari che mi pesano in tasca come macigni mentre scrivo queste parole. Dovrò farli rendere al meglio per poter continuare almeno questa forma avariata di sopravvivenza oppure...quest'oggi, qui, nella piazza del mio paese cercherò di risolvere in un modo o nell'altro la mia vita. Li spenderò per una latta di benzina, un carburante da poco, sperando che qualcuno possa ancora scaldarsi a questo tipo di fiamma.

Non mi resta altro da chiedere che un metro quadro di attenzione sulla piazza di Sidi Bouzid, davanti al palazzo del governatore, per illuminarlo con quel che avanza del mio coraggio. Questo me lo dovranno concedere, e questo mi prenderò come trofeo.

Quel che resterà poi di me o delle  mie vesti sia disperso nel deserto.

Sarà Allah a giudicarmi.

A te, figlia mia, diranno che è stato tutto inutile.

Che tuo padre è morto giovane solo per un capriccio, per una fatalità cercata, un appuntamento perso con la storia così come ce la raccontano. Non sapendo, o non volendo sapere, che questa storia ce la creiamo da soli gesto dopo gesto, respiro dopo respiro.

Ti diranno forse ch'ero bello e audace prima d'invecchiare tutto in un colpo, che il fuoco arde le pieghe della pelle, ne consuma cellule e sudori sino a lacerare la carne viva come un urlo.

Ma a me non era rimasto altro che questa carne per urlare, credimi figlia mai conosciuta, mai nemmeno avuta.

Non mi sono dato il coraggio di vederti bambina giocare tra la sabbia coi colori cangianti del camaleonte tra le mani. Di vedere i tuoi occhi, che mi piace immaginare neri, guardarmi attraverso il velo quando il canto dal minareto si diffonde all'imbrunire ed il vento del deserto si intrufola tra le tende come ladro.

E non ti vedrò sposa, ornata e profumata come donna, senza me accanto, senza voci festanti, senza canti, senza danze.

Saranno fiamme oggi a danzare.  Sulla piazza Venceslao o tra i passanti di Saigon lo furono, e di quella danza resta voce ancora adesso, persino qui, persino ora tra queste ultime parole scritte dalla mia mano che inizia a tentennare.

Perdonami figlia, e perdona il mio tempo malato.

Che non è ancora il tuo.

 

L'AMORE DI TEO


 

Chiara resta sempre in cortile più a lungo degli altri.

Forse è la sua natura. La vedi china su un fiore, e mentre gli parla lo accarezza piano come fosse di vetro, e sorride. Nessuno si avvicina a disturbare quell’intimità, solo l’infermiera, quando ormai tutti sono già rientrati le tocca una spalla e le sussurra qualcosa all’orecchio per guidarla poi docilmente all’interno.

Teo la osserva in silenzio dalla finestra al primo piano dondolando leggermente avanti e indietro il capo dal naso adunco con fare ipnotico e torturandosi un’unghia coi denti sino a scoprire la carne viva. I suoi capelli sono sempre più radi e la pelle è bianca, come di chi non sopporta il sole. Ma lui non sente nulla, così perso com’è nell’immagine di Chiara, minuscolo fagotto indifeso.

Poi torna in stanza, al suo quaderno dalle orecchie logore, i fogli che nemmeno stirati riescono più a sopportare quel continuo scrivere e cancellare, scrivere e cancellare… Calligrafia stentata per lunghe file di numeri in colonna, segreti inconfessati che spuntano da chissà quale bagliore, e in chissà quale incubo vanno poi a deragliare.

E mentre scrive sogna Teo, cinquant’anni suonati ma pensieri bambini, che inseguono forse una stella, forse il volo di un’ape, spinti da quell’unico alito di vento che il suo cuore riesce ancora a percepire per poi comunque andare a ricadere sempre sul volto di Chiara.

Chiara illuminata da un raggio sole, Chiara che sorride, Chiara che cammina con la sua veste bianca. Si sente bene in quei momenti Teo, si tocca la barba di due giorni senza rendersi conto di altro che non sia il tempo che manca al prossimo incontro, lui alla finestra, lei in cortile. 

Le ore nel mezzo solo rumore bianco in sottofondo.



 

I FANTASMI DI HAYDAR


 

 

Dopo appena sei giorni il silenzio fra di loro divenne regola.

L'improvviso affondamento della nave, il piccolo ed antiquato cargo che faceva rotta tra il Mar Nero e l'Olanda,  era stato come un incubo. L'incidente era capitato a notte fonda, al largo delle coste Galiziane, quando un solo uomo era di veglia; ma l'ufficiale in seconda, il sonnacchioso Haydar Sunay, di turno in quel momento, non si era rivelato all'altezza della situazione.

L'esplosione in sala macchine aveva causato uno squarcio enorme ma l'uomo, prima di riuscire a capire di cosa si trattasse, aveva tentennato sul da farsi, ed aveva in tal modo irrimediabilmente compromesso il destino dell'equipaggio. In meno di cinque minuti la nave era colata a picco portando con sè nove uomini e, cosa inaudita, nessuno era riuscito a lanciare un SOS,

I sopravvissuti erano solo tre: il comandante, il suo secondo ed un assistente cuoco.

Il capitano White era un uomo dall'età indefinibile, magro, dal volto affilato come la lama di un coltello, i capelli biondi e gli occhi celesti che spiccavano come cristalli su di una carnagione incredibilmente chiara. Si diceva fosse inglese, ma nessuno a bordo ne era sicuro; non era mai stato visto bere una birra, e nessuno era riuscito nemmeno ad entrare nella sua cabina per cogliere qualche indizio che ne rivelasse la nazionalità. Solo la sua proverbiale riservatezza era nota a bordo.

Il secondo sopravvissuto era il vicecomandante che era di guardia la notte del disastro.  Nativo di Istanbul, Haydar Sunay aveva una cinquantina d'anni che tuttavia non dimostrava. Era piccolo di statura, aveva capelli neri ed una folta barba che gli incorniciava il volto sul quale due guance perennemente rosse erano divise da un imponente naso. Nonostante la gravità dell'accaduto sembrava aver superato la cosa con apparente noncuranza.

L'ultimo passeggero della scialuppa era un nero. Ibrhaim Al Kharsi veniva dal Senegal e lavorava nella cucina di bordo. Giovane ed atletico era sempre di buon umore, persino ora, nella situazione di emergenza nella quale i tre si trovavano. La scialuppa che Ibrhaim era riuscito disperatamente a sganciare pochi secondi prima che la nave si inabissasse era quasi totalmente priva di qualsiasi cosa potesse loro servire per sopravvivere in mare. Il piccolo apparecchio radio era fuori uso, e le razioni di viveri ed acqua che avrebbero dovuto trovarsi sotto ai sedili erano meno di un quinto di quelle previste. Una tela cerata e cinque razzi di segnalazione marciti a causa dell'umidità erano tutto ciò che avevano a disposizione. Solo il comandante, prima di finire in acqua, era riuscito a salvare il coltello multiuso dal manico in osso che abitualmente teneva nella tasca dei pantaloni.

Così, maledicendo ora l'armatore e la sua taccagneria, ora la malasorte,  si trovavano oramai da una settimana in balia dell'Oceano Atlantico, ormai quasi senza viveri e con la certezza che nessuno li stava cercando.

Dopo i primi giorni di adattamento i tre sembravano aver trovato una specie di equilibrio tra loro. Al giovane cuoco spettava ancora il compito di dividere i viveri residui sotto l'occhio attento degli altri due; le iniziali discussioni tra il comandante e il suo secondo su cosa potesse essere successo, avevano lasciato il posto a sempre più lunghi silenzi, rotti solo dai fischiettìi del giovane senegalese mentre con la cerata cercava di recuperare un poco di acqua piovana dagli  sporadici acquazzoni che li investivano.

A una decina di giorni dal naufragio la situazione si era come cristallizzata; nulla accadeva di diverso giorno per giorno, e i tre uomini passavano un'ora dopo l'altra come in trance. Solo il sig. White rimaneva ostinatamente in piedi, riparandosi gli occhi con una mano scrutava l'orizzonte in tutte le direzioni alla ricerca di qualche nave che li traesse in salvo.

E proprio lui si era rivelato il più debole del terzetto. Si agitava sempre più spesso inutilmente sulla scialuppa passando da un capo all'altro dello scafo, impartendo ordini insensati ai compagni che lo osservavano senza capire. La situazione drammatica gli aveva dato alla testa, o forse si sentiva gravato di responsabilità più grandi di quanto non riuscisse a sopportare, fattostà che il sig. White era diventato un peso più che una risorsa per i suoi compagni. Qualche occhiata furtiva  ogni tanto scattava tra il secondo e Ibrahim, ma subito gli sguardi si abbassavano per quella sorta di complicità nascente.

Fino a che una mattina Ibrahim, svegliandosi, trovò davanti a sé solo il turco, addormentato come sempre di traverso su fondo della barca.

- Ehi, capo Haydar, dov'è finito il comandante ? - esclamò allarmato.

L'uomo aprì lentamente gli occhi, infastidito da quella voce, e senza voltarsi  rispose sgarbatamente:
- Hai provato a guardare in sala macchine...? o forse no, meglio nella sua cabina...ahahahah – sogghignò mettendosi a sedere.

- Mio Dio - continuò il giovane - ma com'è possibile,  sarà caduto in acqua stanotte... era buio pesto, forse è inciampato, e col mare mosso  

sarebbe stato difficile distinguere il rumore di una caduta dallo sciabordìo ...

Il turco, senza nemmeno fingere di guardare tra le onde, rimase immobile a fissare un punto lontano all'orizzonte, come cercasse di forare la foschia con lo sguardo per individuare terra. Immobile, senza rispondere, solo annuendo lentamente col capo, quasi stesse suggellando con quel gesto l'inevitabile conclusione cui erano destinati, preceduti forse solo di qualche giorno dal comandante.

- Cazzo -riprese il cuoco - siamo rimasti solo noi due.

- Già – rispose il vecchio – solo noi.

Poi, voltandosi con studiata lentezza verso Ibrhaim, gli disse scandendo bene le parole:

- Quindi i pochi viveri che spettavano al sig. White ci daranno qualche giorno in più di possibilità, vero...?

Il nero non rispose, ma annuì abbassando il capo in segno di comprensione.

- Bene – continuò il turco tornando a sdraiarsi – bene.

Quella notte Ibrhaim quasi non chiuse occhio. Il pensiero del comandante che scompariva tra i flutti non lo abbandonava, anzi l'immagine che si era costruito nella mente, l'uomo che affoga tendendogli disperatamente le mani, lo faceva sentire quasi in colpa per l'accaduto.

L'alba lo trovò ancora vigile, mentre il secondo continuava nel suo sonno ostinato.

Al momento di dividere una delle ultime scatolette di carne residue, qualche ora dopo, il nero rimase di stucco vedendo comparire nella mano di Haydar il coltello che era stato del comandante.

La sua sorpresa non passò inosservata al turco, che maneggiando la lama con insospettata abilità, divise con un colpo secco in due parti uguali la porzione e con fare brusco gli chiese:

- che ti prende Ibrhaim, non fa lo stesso se sono io a dividere il cibo?

- Certo capo Haydar, solo mi chiedevo... quel coltello...

- Non farti strane idee, l'ho trovato sul fondo della barca dopo la scomparsa del comandante

Il giovane abbassò il capo, non riuscendo a sostenere lo sguardo deciso di sfida dell'altro.  Tuttavia riuscì a controbattere

- ...ma capo, lei è stato quasi tutto il tempo addormentato, e non si è mai mosso da lì...

- cosa vorresti insinuare ?? - quasi urlò il turco alzandosi di scatto e brandendo minaccioso l'arma.

- Nulla, capo, si calmi, non voglio dire nulla – rispose Ibrhaim in modo remissivo

- Bè, meglio così – concluse l'altro dandogli la schena e cominciando a masticare rabbiosamente l'ultimo boccone di carne del giorno.

In quel momento Ibrhaim comprese che la propria vita era in pericolo; la reazione del turco alla sua osservazione era stata spropositata ed il fatto che gli avesse nascosto d' aver ritrovato il coltello suonava per lui come una implicita confessione.

Oltre al pericolo tangibile del naufragio, della fame, della sete e con le poche residue possibilità di sopravvivenza, ora doveva anche convivere con l'ansia della presenza di Haydar, un uomo di cui non si fidava più e col quale doveva condividere quello spazio ristretto.

E fu proprio il giorno dopo, mentre in piedi scrutava l'orizzonte in cerca di qualche aiuto, che il turco colpì. Passandogli dietro con insospettabile agilità gli diede un possente spinta che lo catapultò fuori dalla barca. Quando riemerse dall'acqua gelida non gli restò che urlare

- capo Haydar, bastardo, hai fatto lo stesso anche col comandante vero?

Il secondo, seduto al centro della scialuppa, lo guardò quasi divertito, e senza alcuna emozione nella voce gli rispose:

- che differenza fa per te saperlo ?

- mi faccia salire, presto mi aiuti la prego -  disse il ragazzo cercando di avvicinarsi alla scialuppa. Ma non appena cercò di issarsi appoggiando le mani sul bordo della barca lesto l'altro estrasse il coltello dalla tasca e con un colpo deciso lo ferì tagliandogli ripetutamente le dita. Il giovane lasciò urlando la presa, scivolando nuovamente in acqua mentre una grande macchia rossa cominciava a formarglisi intorno.

- Non c'è posto per due su questa nave figliolo. Mi dispiace.

La rabbia livida negli occhi di Ibrahim copriva persino il dolore alle mani ferite ed il suo sguardo esprimeva un odio puro verso l'altro.

- Che Allah ti maledica, possa tu pagare per la mia e le altre morti le pene di ogni inferno ….un giorno ti ritroverò...-  fu l'ultima cosa che Ibrhaim riuscì a proferire prima di venire sommerso da un'onda più forte delle altre.

Haydar lo osservò in silenzio venire inghiottito dall'abisso, pulendosi la lama del coltello sui pantaloni. Poi, dopo un paio d'ore, accertatosi della definitiva scomparsa del giovane con un'ultima occhiata guardinga, si sdraiò nuovamente sul fondo della barca stringendo il coltello tra le mani e chiuse gli occhi.

 

* * *

 

Il suo vicino di casa è una brava persona.

Ma pur sapendolo Haydar limita i rapporti ad un semplice buongiorno, scambiato di fretta quando i loro passi si incrociano casualmente durante la passeggiata mattutina mentre l'altro prosegue per il molo cui tiene attraccato il suo piccolo scafo a motore. Al saluto segue immancabile il mutismo più assoluto, una forma di ignorarsi cui il vecchio è abituato.

Perchè Haydar è così, non concede confidenze a nessuno, nemmeno a quelli della propria famiglia. Almeno quel che ne resta.

Di poco oltre i settanta l'uomo vive solo. O meglio, abita una vita di serie B in una vecchia autorimessa adibita a  monolocale; un seminterrato triste, a livello del marciapiede, nella prima periferia di Anadolu Kavagy, l'ultimo centro abitato sulla riva asiatica prima che il Bosforo si apra nel Mar Nero. Il resto della casa, uno di quei condomini di due appartamenti risalente agli anni sessanta, è abitato dalla ex moglie, l'acida Feriha e dalla figlia Harika con il bambino avuto qualche anno prima frutto di un mai perdonato errore di gioventù.

L'edificio è posto all'inizio di un lotto all'ingresso del paese e si affaccia da una parte sulla strada principale che conduce ad Istanbul e dall'altra  su uno strapiombo di un paio di metri che finisce direttamente in mare.

Il terreno, lungo un centinaio di metri,  non è coltivato, eccezion fatta per un minuscolo orto attaccato alla casa e per due filari di viti che si sviluppano paralleli in lunghezza sino a finire a pochi metri dalla riva.

Ma l'acqua, in questo tratto fra il Mar Nero ed il Mediterraneo, non è mai particolarmente mossa, sicchè nessuna mareggiata ha mai minacciato il  vigneto.

Haydar vive la sua incipiente vecchiaia lavorando nel negozio di piccola ferramenta che gestisce quasi a tempo perso da oltre dieci anni e cura i suoi filari non appena possibile.  Non è la vecchiaia agiata e serena che aveva sperato, ma dentro di sé lo sa, è così dal giorno di quel maledetto naufragio, quando la sua vita aveva improvvisamente preso una piega non voluta e tutto aveva cominciato ad andargli storto; la compagnia, dalle finanze già traballanti, a causa del disastro era fallita e lui era rimasto senza lavoro. Nell'ambiente marinaro, ancora così terribilmente superstizioso, lui era ormai additato come una specie di lebbroso, lui era il sopravvissuto, l'unico sopravvissuto, e nessun equipaggio era disposto a tenerlo a bordo.

A seguito di ciò i rapporti con la famiglia si erano irrimediabilmente guastati e a nulla era servito tornare a casa e interrompere le lunghe assenze di mesi come quando era imbarcato; come se non bastasse anche la salute lo stava tradendo.

Un giorno il suo medico, osservandogli le analisi e scuotendo la testa, aveva sentenziato: devi fare del movimento, fai delle passeggiate, esci, cammina insomma.

L'uomo aveva annuito senza proferire parola, com'era nel suo carattere, ed era tornato a casa con ben chiaro in testa come comportarsi. Camminare, gli aveva prescritto il medico, e lui avrebbe camminato. Tutti i giorni, due ore al giorno. Così avrebbe fatto.

Ma di andare in paese proprio non aveva alcuna voglia. Sentirsi quegli occhi puntati addosso come spilli, immaginare le voci dietro le finestre rivangare nel suo passato “ecco, vedi, quello è Haydar, sai, quello divorziato...da giovane andava per mare” oppure, “guarda come cammina con gli occhi bassi, si dice sia l'unico superstite...”.

Si, li vedeva già complottare, costruire chissà quali supposizioni sul suo conto.

Così aveva deciso una cosa molto più semplice.

Si era comprato un paio di scarpe comode, di quelle sportive per corsa leggera, e aveva disegnato nella sua mente un percorso sul terreno dietro casa, un grande rettangolo i cui lati più lunghi costeggiavano i filari di viti mentre i corti erano da un lato la strada, dall'altro il mare. Poi aveva comiciato a camminare. Inizialmente l'erba alta gli era stata d'ostacolo, ma passaggio dopo passaggio, giorno dopo giorno lui l'aveva avuta vinta. Prima l'erba era scomparsa davanti ai suoi passi, poi la sua ostinazione, che non temeva feste o ricorrenze, era stata premiata dal progressivo comparire di un preciso sentiero sterrato. Passo dopo passo si era creato una pista battuta, una propria corsìa personale sul quale impiegare due ore ogni giorno. Mai un minuto di meno.

E come non c'era Pasqua o Kurban che impedisse quel rito, per lui agnostico, così nessuna condizione atmosferica, per quanto avversa, lo avrebbe fermato. Persino sotto alla neve, quando magari già una decina di centimetri caduti durante la notte gli ostacolava il passo, riusciva a identificare il tenue avvallamento della coltre e a percorrere spedito il suo sentiero nonostante i fiocchi cadessero ancora.

 

Quest'anno settembre è cattivo. La pioggia che cade quasi ininterrottamente da due settimane ricopre il cuore di grigio. Persino la sponda europea, a poco più di un chilometro, sembra scomparire tra quei colori smorti che si confondono all'orizzonte mescolando in una unica tinta case ed alberi come fosse cenere all'interno di una stufa.

I mercantili continuano a passare, in lenta processione, in ambo i sensi; ogni tanto una sirena lacera l'aria per farsi dare il passo da qualche pescatore che si è avventurato nel canale, poi, terminato l'eco disperso nelle anse del canale,  torna il silenzio ed il monotono ticchettìo della pioggia.

Anche stamattina Haydar sta camminando, come sempre a quest'ora. L'acqua che cade non lo infastidisce più di tanto, semmai è il fango sul sentiero a rompergli il passo rendendogli l'equilibrio instabile.

Il terreno fradicio ormai non ha più capacità di assorbimento e sul suo cammino la terra è solo fanghiglia informe.

Giunto all'estremità del suo giro Haydar si volta per tornare a casa, al coperto, e già pregusta il buon thè che si prepareà di lì a poco.

Ma proprio tra la riva e i filari, un piede gli sfugge ed inizia a scivolare verso il mare. Annaspando da terra alla ricerca di una presa l'uomo infila le mani nel fango, ma ormai la leggera pendenza  lo sta portando inevitabilmente a cadere in acqua. Con un ultimo sforzo artiglia il terreno cercando un appiglio, ma è tutto inutile, le dita lasciano piccoli solchi nel fango che subito si riempie di acqua piovana. Con un rumore sordo cade in mare e viene sommerso dal nero. Immediatamente l'istinto prende il sopravvento e l'uomo inizia a dibattersi e nuotare per raggiungere la riva che ha proprio lì, ad un metro dalla sua mano.

Ma qualcosa lo ostacola, qualcosa gli impedisce il movimento delle gambe. Terrorizzato Haydar guarda sotto di sé cercando di togliersi di dosso il giaccone impermeabile. Ma anche questo gli è impedito, qualche cosa che non riesce a definire lo sta gradualmente immobilizzando. Sono alghe, rami di alghe che sembrano danzargli intorno, portate dalle correnti e che gli si sono avvinghiate alle caviglie e intorno al corpo. Hanno la forma di braccia, lunghe e potenti braccia nere, tra le quali inorridendo gli sembra di riconoscere un volto, quello di Ibrhaim. E' un viso ancora giovane, e si protende verso di lui con un ghigno che gli ricorda quello di un teschio; le orbite vuote lo guardano dritto negli occhi e da quel vuoto sembra uscire una voce:sono tornato a prenderti.

Il terrore lo attanaglia e cerca disperatamente di divincolarsi. Ma la presa delle alghe resiste e un fascio gli avvolge il collo e lo trascina ancora più giù, sempre più verso il fondo. Ormai l'uomo è in preda al panico, quando ricorda di avere il coltello, quel coltello, nella tasca.

Con un gesto disperato lo afferra e febbrilmente cerca di recidere le erbe che lo avviluppano. Ma mentre sta per accingersi a tagliare, dall'oscurità sottostante appare una macchia bianca, un grande polipo che con mosse lente e sinuose, come fosse al rallentatore, con un tentacolo gli si avvinghia al braccio e con un altro gli strappa il coltello dalla mano.

Haydar capisce che non riuscirà mai a liberarsi da questi fantasmi, ed è questa come una rivelazione, una liberazione per l'uomo che smette di dibattersi.

L'ultimo pensiero di Haydar è per i suoi filari di vite, si immagina a primavera con le forbici in mano a potare, con l'aria tiepida di fine aprile che gli  accarezza il viso... poi un dolore acuto al petto lo scuote un'ultima volta e tutto il resto diventa buio.

mercoledì 29 maggio 2013

C'E' POSTA PER TE


Mi ero dato per disperso
anzi no
forse già consegnato
recapito certo
nessun reclamo

Poi, un giorno
che mai ti aspetti
a sciogliere ricordi
come cartone
una pioggia improvvisa

Ora lo so.
Sono ancora merce valida
ma da accettare con riserva.

giovedì 23 maggio 2013

PENDOLARI



 

Non puoi mai dire con certezza quant’è profonda una pozzanghera finchè non ci poggi il piede.

Così in questa bella mattina di inizio aprile non sapevo ancora  se mi sarei solo bagnato la suola della scarpa o se invece sarei finito dentro all’acqua fino al collo.

Ero sul treno, il solito treno che prendo tutti i giorni per andare al lavoro in tribunale, confuso tra la miriade di pendolari. Accanto a me, in piedi nel corridoio, uomini in impermeabile e valigetta 24 ore, donne che digitano in continuazione su microscopici telefoni, qualche studente con lo zaino ai piedi, tutti stretti come sardine per un'ora almeno. Alla seconda fermata sei salita tu e ti sei piazzata accanto a me. Una trentina d’anni, due occhi verdi stupendi, bionda e fasciata in una gonna aderentissima appena sopra al ginocchio che lasciava intuire due bellissime gambe. Un trucco appena accennato e sottobraccio un paio di quotidiani ed una borsetta Disegual.

Entrando ti sei poggiata a me per non cadere, così ho potuto avvertire bene la tua presenza, il tuo seno sodo sotto alla maglietta.

Mi scusi – hai detto a quel tipo sulla cinquantina, brizzolato e dallo sguardo vivace, con il completo blu e la cravatta d’ordinanza, che ti stava davanti.

Non è nulla si figuri - ti ho risposto.

Tu hai tranquillamente preso posto accanto a me ed hai cominciato a leggere le prime pagine dei tuoi giornali. Da dietro  potevo vederli anch’io, ma ero come inebriato dal tuo profumo, dolce ma non troppo invadente, sensuale e ipnotico. Senza sapermi spiegare il perché ho appoggiato il mento sulla tua spalla, in un gesto tanto naturale quanto inconsueto. Tu ti sei istantaneamente voltata verso di me sorridendo appena.

Stai comodo così….? – mi hai detto

I visi vicini, il buon sapore del tuo alito, le labbra che quasi si toccavano, mi sembrava di essere un’altra persona; ma rendendomi conto della situazione paradossale mi sono come svegliato e rialzandomi ho farfugliato un timido

Oddio, mi scusi, non so spiegarmi come è stato possibile….. io veramente….

Ok, ok, non c’è problema, sono cose che possono succedere in treno – mi hai risposto ammiccando -……comunque piacere, io sono Valeria.

Piacere, Vittorio. – mi sentivo il perfetto idiota, e la cosa deve esserti sembrata abbastanza evidente, visto che hai iniziato a guardarmi di sottecchi, fingendo di leggere il giornale, con un sorriso leggero disegnato sul volto. Io mi sono finalmente deciso ed ho provato con un banalissimo:

posso offrirti un caffè appena arrivati alla stazione centrale o devi andare al lavoro?

Mi hai guardato per un secondo, indugiando appena sulle mie labbra, poi ti è uscito quel meraviglioso

…beh, perché no, oggi sono libera, andavo in città solo per fare un giro tra i negozi del centro

Abbiamo iniziato a parlare, come due perfetti sconosciuti, con le rispettive verità da affermare, ma senza prevaricazione, ognuno ascoltando l’altro con vero interesse.

 In pochi minuti eravamo in stazione ma in quel pur breve tragitto io già sapevo qualcosa di te, della tua vita da single, dell'odio che provavi per il tuo lavoro in città e di come lo annegassi in dure ore di allenamento in palestra.

Dentro di me avevo già deciso che mi sarei preso un giorno di riposo e non sarei andato in udienza, mi sostituissero con qualcun altro.

Preferirei un bar fuori da qui, mi hai detto uscendo. Ed io sono stato ben felice di accompagnarti da Starbucks, con le salette appartate al primo piano e le mille qualità di caffè profumato a contorno.

Ad un certo punto ti è caduta la borsetta dal tavolo e raccogliendola ti sei chinata divaricando appena le gambe. Dallo spacco laterale della gonna ho intarvisto per un attimo il nero delle autoreggenti,  e per me è stato come una frustata.

Come avrei potuto non caderci, accarezzato dall'aroma di vaniglia e cannella che aleggiava nella stanza, perso nello smeraldo dei tuoi occhi che ad ogni parola sembravano invitarmi ad osare un po' di più, ed ancora un poco di più facendomi tremare la tazzina tra le mani.

Improvvisamente mi sono sentito come un satiro, un demone assetato cui avresti dovuto dar da bere al più presto. Una sorta di frenesia sessuale si è impadronita di me, di noi, senza aver alcuna voglia di contrastarla.

Già a nel primo pomeriggio ci baciavamo appassionati come due ragazzini, strusciandoci e provocandoci l'un l'altro; sin quando, vedendomi ormai esasperato, mi hai finalmente proposto di seguirti.

Ed io già assaporavo...

 

 

 

La scarica del paralizzatore ha fatto un buon lavoro, non c'è che dire.

L'ultimo istinto quando ho visto il tuo corpo di uomo possente inerte come un sacco di patate sul sedile è stato quello di farti soffrire, subito, un male tanto grande quanto appagante. Tagliando, mordendo, ferendo...Ma ho preferito lasciare perdere, riuscendo a dominarmi e continuando a guidare nel buio deserto di questa notte inaspettatamente chiara.

Le luci si stanno diradando man mano che mi allontano dalla città e mi dirigo verso i monti.

Ogni tanto coppie di fanali dalla luce violenta mi incrociano e mi capita di chiedermi chi ci sia alla guida su quell'auto ignota. Cosa sta provando, mentre torna a casa magari dopo una giornata di lavoro, o forse invece mentre sta accompagnando un amico al treno.

Chissà le vesti che indossa, cosa ascolta, a che pensa.

O se, come in un diabolico gioco di specchi, anche lui si chiede chi c'è dall'altra parte. In fondo, mi dico, sono solo storie qualunque che mi sfiorano nell'oscurità.

Ad un tratto riconosco il segnale ed imbocco la strada sterrata che inerpicandosi per la montagna taglia il bosco in due parti distinte. Alla luce dei fari i giochi di ombre generati dalle piante e dal fogliame sono quasi un incubo di cui anch'io faccio parte, ma al mio passaggio quel caleidoscopio cangiante a due soli colori si ricompone nel nero che mi lascio alle spalle, chiuso e sigillato dalla cerniera della mia auto che passa..

Ormai dovremmo essere quasi giunti  a destinazione, riconosco il sentiero che porta al lago.

Mi fermo a lato e scendendo dall'auto un brivido freddo mi coglie. Sarà l'aria umida della riva, o forse qualche senso di colpa che inaspettato mi coglie.

Apro la portiera posteriore e alla luce fioca dell'abitacolo ti guardo valutando tra me lo sforzo che dovrò compiere per portarti dentro.

Ma non ho ripensamenti, né malinconie che mi possano far tentennare in ciò che sto facendo.

Sei pesante, adesso. Trascinarti fuori dall'auto è una sofferenza, anche perchè inspiegabilmente adesso non voglio causarti dolore, come bastasse quello che sto per fare a ricompensarmi. Ma tu non mi aiuti, nel tuo sonno inconsapevole le maniche della tua giacca si impigliano tra i rami ostacolandomi, mentre i miei tacchi si piantano nel terreno umido trafiggendo strati di foglie bagnate.

Una calza mi si è anche afflosciata sulla caviglia ma non ci faccio caso.

E' tardi, e il capanno per fortuna è poco distante.

All'interno le finestre sono oscurate, così che nessun occhio indiscreto si possa insospettire.

Entro e chiudo a chiave la porta, poi con un ultimo sforzo ti scaravento  sul divanetto, alla luce dell'unica lampadina della stanza.

Sposto il massiccio tavolo al centro del pavimento al di sotto del quale la botola è appena visibile. La apro e scendo per la ripida scala a pioli. La stanza è pronta, le pareti in sasso sono asciutte, la catena è ancorata ad un gancio murato alla parete e in un angolo un water e un minuscolo lavandino sono celati da una vecchia quanto inutile tenda. Mi avvicino al foro di areazione per verificarne il funzionamento e sento l'aria fresca della notte passarmi come carezza sul volto. Dal soffitto in legno una lampadina a tenuta stagna emana una luce fioca che illumina le poche cose presenti: una seggiola, la branda con le coperte, qualche libro posato sul comodino. Accanto alla branda uno scaffale con alcune bottiglie d'acqua e qualche provvista a lunga conservazione.

Null'altro.

Tutto è pronto ad accoglierti.

 

 

 

 

 

 

La fitta al collo è quasi insopportabile. Il semplice contatto della pelle col colletto della camicia mi fa vedere le stelle ma non c'è una posizione adeguata che mi salvaguardi dal dolore. Mi sto gradualmente svegliando ma ho ancora la testa pesante.

Alla luce fioca di una lampadina che sembra dondolarmi davanti agli  occhi tanto mi gira la testa inizio vagamente a ricordare qualcosa.

Il treno, la ragazza, il caffè, poi mi sembra di ricordare un parco, un sotterraneo... Si, ecco, ora rammento è stato dentro al parcheggio interrato, quando siamo andati a recuperare la sua auto  che mi si è avvicinata con quello strano aggeggio tra le mani, e da quel momento non ricordo più nulla. Solo qualche lampo, come un flash impazzito. 

Nemmeno ora capisco dove mi trovo.

Ho solo freddo, un gran freddo. Cerco di muovermi ma qualcosa al piedi me lo impedisce.

Con sforzo mi metto a sedere e osservo ciò che mi circonda man mano che riesco a metterlo a fuoco. Mi trovo in un ambiente cupo e poco illuminato, le pareti di pietra sono spoglie ed una pesante catena in acciaio che ho fissata alla caviglia finisce in un anello che fuoriesce dall'unica parete in cemento armato.

Poco davanti a me la ragazza, appoggiata ad una minuscola scala a pioli, mi fissa masticando un chewin gum, con gli occhi che le brillano.

- Che significa tutto questo ?- le chiedo

- Non l'hai capito vero Vittorio ?

- Certo che no, perchè sono legato con questa catena...e poi dove siamo...?

- Eh, siamo in luogo dove nessuno verrà a cercarci, anzi, a cercarti.

- Ma sei pazza...? Liberami immediatamente -  le urlo con rabbia

- Smettila di agitarti, avrai bisogno di tutte le tue energie fisiche e sopratutto mentali per parecchio tempo.

Cerco di avventarmi contro di lei, ma sono ancora troppo intontito e cado miseramente sul pavimento con un assordante fragore di catene.

- Mi vuoi spiegare cosa succede ?– le chiedo quasi implorante.

La ragazza emette un sospiro quasi di liberazione poi comincia a parlare.

- Tu non puoi ricordarti di me – mi dice Valeria – ero solo una bambina quando condannasti mio padre a vent'anni di galera.

Fu una delle tue prime sentenze sai, e con quelle parole definitive senza saperlo condannasti anche mia madre e me, insieme a lui.

Il dolore di vederlo in carcere, giorno dopo giorno, fu troppo grande per lei. E a poco serve ora sapere se lui fosse innocente o meno. Il mondo ci cadde addosso, e con la violenza di una tromba d'aria ci portò via tutto. Casa, soldi, persino gli amici uno ad uno si dileguarono lasciandoci sole.

Mia madre non si riprese da quel colpo basso che la vita le aveva sferrato. Iniziò a bere, a frequentare altri uomini e dopo qualche anno, non appena io fui maggiorenne, mi abbandonò e fuggì per chissà dove.

Io rimasi sola, a cercare di dare un senso alla mia vita; provando a sopravvivere e contemporaneamente curando mio padre, l'unica cosa che mi fosse rimasta a testimonianza di un'infanzia remota ma felice.

Lo andavo a trovare ogni settimana, e gli portavo quel sorriso che era tutto ciò che gli restava oltre alla speranza di uscire un giorno da quel posto maledetto.

Ma anche per il lui il destino aveva già deciso un finale differente. Un giorno si ammalò e in meno di due mesi morì, senza essere riuscito nemmeno a... a... senza che io...- la voce le si spezza mentre due lacrime le rigano le guance.

- Senti io... - cerco di dire ma vengo subito bruscamente interrotto.

- Non importa – fa lei asciugandosi il viso col dorso della mano – ormai non importa più. Quando lo vidi steso all'obitorio per l'ultimo saluto, quando mi avvicinai al suo corpo una volta possente ed ora pallido e sofferto, capii che era tua la colpa. Ogni ruga del suo volto, ogni pelo della sua barba diventata bianca in carcere, persino il giallo della nicotina attaccato alle dita per gli anni di sigarette fumate in cella, tutto mi diceva la stessa cosa: che eri tu a dover pagare per ciò che a me era stato rubato.

Così mi sono messa alla tua caccia, anche se in fondo eri una preda facile. Negli ambienti giudiziari in città sei conosciuto come donnaiolo da strapazzo, la tua vita da single non ha segreti per i tuoi colleghi. Oltretutto la loro invidia nei tuoi confronti è grande e manipolarne un paio per conoscere tutto di te è stato un gioco da ragazzi; le tue abitudini, dove vivi, come ti muovi, i tuoi gusti in fatto di donne.

Ho agito di conseguenza, e come vedi non ho fallito.

- Ma che vuoi fare, perchè siamo qui, perchè sono incatenato?

- Non l'hai ancora capito? Mi spetta un risarcimento per quello che mi hai tolto.

- ...e sarebbe … ?– dico con la voce che mi trema mentre comincia a farsi largo dentro di me una terribile verità

- Vent'anni della tua vita. Non un giorno di meno. Gli stessi che hai inflitto a mio padre.

- Tu sei pazza !

- Pensa ciò che vuoi, la situazione non cambierà. Potrai urlare a squarciagola, siamo in un luogo che nessuno conosce tranne me, e quand'anche qualcuno capitasse da queste parti per caso, tu ti trovi sotto terra e non puoi essere udito da nessuno. Io passerò di qui una volta alla settimana per controllarti e rifornirti di viveri. E questo e tutto.

Sono senza parole, e incredulo che stia capitando proprio a me la vedo risalire la scala a pioli. Ma prima di andarsene estrae una foto da una borsa e la fissa a lato di un gradino con il chewin gum che si è tolta dalla bocca.

Poi si volta verso di me e mi dice:

- Ti lascio la luce accesa. Per non dimenticare.

Il tonfo della botola che si richiude è l'ultimo rumore che sento.

Poi improvviso scoppia un silenzio che mi annichilisce.

Cerco di avvicinarmi alla foto quel tanto che la catena mi consente e la osservo.

E' un vecchio scatto, un poco ingiallito sui bordi. L'immagine è quella di una famiglia serena, sullo sfondo un lago e delle vette innevate.

Tra i genitori una bambina sorride felice.

 

 

 

Gazzettino Padano del 13 aprile

Notizie di cronaca.

 

Incidente mortale  all’alba di oggi alla periferia di Milano. Una giovane di 30anni, Valeria Morini, si è schiantata con la sua vettura contro un Tir che procedeva in direzione contraria. Un colpo di sonno la probabile causa dell'incidente. La donna è morta sul colpo e per liberarne il corpo dalle lamiere sono intervenuti i vigili del fuoco.

* * *

Proseguono le ricerche del giudice Vittorio Cerchi ormai scomparso da una settimana senza lasciare traccia di sé. Ricordiamo che l'uomo è stato notato per l'ultima volta sul treno per Milano mentre si recava al lavoro, dove però non è mai arrivato.

EFFETTI COLLATERALI DEL CALCIOSCOMMESSE


 

Quando mise in moto l’auto era quasi sera in quella domenica di novembre 89.

Una giornata come un’altra, in una Milano  dai colori spenti come una vecchia cartolina in bianco e nero, passata in una casa altrettanto grigia e fredda.

Roberto, che non aveva ancora una ragazza, l’aveva trascorsa con l’orecchio attaccato alla radiolina a transistor ascoltando i risultati delle partite di calcio, chiuso nella sua camera al quinto piano della casa popolare di periferia dove viveva con l’anziana madre.

Ogni tanto lei si affacciava alla sua stanza, cercando di perforare con lo sguardo l’oscurità calante tra i fori delle tapparelle, poi immancabilmente gli diceva qualcosa, probabilmente  solo per sentirne la voce risponderle.

Roberto stai leggendo ?

No mamma,  sono quasi al buio…come potrei ?

Ah…

E dopo un quarto d’ora

Roberto ti faccio un thè…?

Come vuoi mamma

Si, ora lo preparo

E così via per tutto il pomeriggio.

Ma quel giorno era accaduto qualcosa di diverso a turbare l’anonimo andazzo delle ore: l’Inter aveva perso il derby. Ed aveva perso male, tre a zero, contro i cugini rossoneri che veleggiavano nella parte medio bassa della classifica. La sconfitta aveva però degli effetti preoccupanti sulla classifica di serie A: i nerazzurri, alla seconda sconfitta consecutiva, erano stati avvicinati dagli odiati Juventini che ora si trovavano, terzi, ad un solo punto. Poco più avanti, ma ancora raggiungibile, il Napoli.

Roberto era un convinto tifoso interista sin dalla nascita, ma non era un ultras;  nei suoi ventotto anni di vita non era mai andato allo stadio, lui sempre così riservato e quasi timoroso di infastidire non avrebbe mai potuto confondersi col tifo chiassoso e caciarone di una curva. Preferiva coltivare la sua passione  da casa ascoltando, come faceva da bambino in compagnia del padre, “tutto il calcio minuto per minuto”, e lasciando alla propria fantasia il compito di immaginare azioni e passaggi descritti dalle voci dei telecronisti.

a te Ameri….” E subito nella sua mente la giornata di vento e di sole a Lecce si trasformava nella pioggia sottile di Torino mentre la voce roca del cronista iniziava con l’immancabile “qui a Torino la situazione è immutata….”.

Magari in cuor suo sognando di cantare i cori dei tifosi interisti “chi non salta juventino è…è” e così via, ma senza mai aver avuto il coraggio di indossare anche una semplice sciarpa ad indicare la propria  appartenenza.

Quel pomeriggio Roberto era deluso. Nei giorni precedenti si era lasciato andare sul lavoro, e ancor di più al bar, giurando e spergiurando che l’Inter avrebbe chiuso in testa il girone di andata con una domenica di anticipo. Ed era tanto convinto della cosa che si era addirittura voluto concedere una cosa per lui assolutamente inusuale: aveva scommesso dei soldi sulla vittoria dell’imminente derby.

Poca roba certo, adeguata alle sue magre finanze di ragioniere assunto in via definitiva da poco tempo, ma comunque una sommetta che in caso di perdita non avrebbe potuto destinare all’acquisto di quello che era l’oggetto dei suoi desideri: un piccolo televisore a colori, un semplice 14 pollici, da mettersi in camera per potersi guardare in santa pace la tv steso sul letto senza dover rendere conto alla mamma.

Sicchè, accendendo il motore della sua vecchia Fiat Ritmo azzurra, ereditata dal padre, si era messo la mano in tasca per toccare per l’ultima volta la busta col gruzzoletto, tutto in pezzi da diecimila lire, che stava per consegnare al vincitore, il proprietario del bar che da dietro al bancone lo aspettava con un ghigno beffardo.

Maledisse prima Van Basten, poi il Milan tutto e infine la propria stupidità che lo aveva portato a questo bel risultato, e si ripromise di non dire nulla alla madre; le avrebbe magari inventato di aver perso la busta coi soldi tra la folla o che gliel’avevano rubata in tram. Qualcosa, insomma,  avrebbe escogitato.

Mentre tornava dal bar, dove era stato anche adeguatamente schernito dal vincitore della scommessa e dalla compagnia dei presenti, decise di non aver voglia di tornare subito a casa; l’idea di trovarsi sotto gli assilli della madre non gli piaceva, avrebbe fatto un giro largo in tangenziale, tra le auto dei domenicali di ritorno dalla gita al lago o dalla visita ai parenti fuori Milano.

E fu proprio in tangenziale che, in lontananza, vide le luci intermittenti di un’auto ferma nella corsia di emergenza. Istintivamente rallentò e con lo sguardo famelico del passante curioso, si avvicinò con cautela. Accanto all’auto, col cofano aperto, un ragazza stupenda. Nella luce del crepuscolo, illuminata a tratti dai fari delle auto che sfrecciavano accanto, gli parve bellissima: bionda, con una minigonna a pieghe che dondolando lasciava intravedere quasi l’orlo delle mutandine, un giubbotto sintetico multicolore e un paio di scarponcini Timberland ai piedi. In quel momento si girò verso il bagagliaio, sul retro della macchina, chinandosi forse a cercare il triangolo e così facendo le si scoprirono le chiappe quel tanto che bastava a farlo distrarre e frenare di botto istintivamente mentre dalla bocca gli sfuggiva un sonoro Ollamadoooonna…!

Dietro di lui quasi immediatamente partì un coro di clacson inferociti a fargli da sottofondo.

Pensando che lo strombazzamento fosse rivolto a lei la bionda si rialzò e con ampi gesti del braccio sembrò mandare a quel paese tutta la fila che nel frattempo si stava formando.

Roberto, con l’auto quasi ferma in mezzo alla corsia, si scosse e senza pensarci due volte accostò davanti a quella della ragazza.

Posso esserti utile ?– disse appena sceso mentre due stupendi occhi verdi osservavano quel ragazzo dall’aria stralunata con gli occhialini posati un poco di traverso sul naso.

Maccheccacchio ne so……. Sta macchina del  menga non ne vuol sapere di andare……; stavo tornando a casa da San Siro per andare a fare casino in piazza con gli amici del Milanclub e sta cazzo di carriola a vapore ha cominciato a sputacchiare e singhiozzare, poi dopo un po’ si è proprio fermata del tutto e adesso non ne vuol sapere di ripartire. – disse la ragazza con gli occhi luccicanti  di rabbia a malapena repressa.

Dio che incazzatura …..che quelli mica mi aspettano - riprese tirando un calcio non troppo convinto a una gomma.

Roberto, che di automobili non aveva nessuna nozione se non quelle –esclusivamente teoriche- relative al cambio di una ruota, assunse un’aria preoccupata, cercando di dare di sé un’immagine rassicurante.

Hmh, vediamo cosa può essere….-disse avvicinandosi al cofano aperto.

Nel contempo gli cadde lo sguardo sulla bandiera rossonera che si intravedeva avvolta e posata sul sedile posteriore.

Ecco l’insidia, ti pareva…..-pensò- certo che questa ragazza è così carina….

Con fare pensieroso girò un poco intorno alla macchina mentre lei lo seguiva con sguardo titubante.

Ma la benzina c’è nel serbatoio…..? chiese improvvisamente lui come fulminato da una illuminazione divina.

Ah bèh….la benzina…..si certo, credo che ci sia – rispose incerta lei.

 

---

 

Uscendo dall’autogrill i due rivolsero un ultimo sguardo complice all’interno verso la cassiera che li salutava sorridendo. Roberto si tirava dietro una borsa colma di salumi, pane sardo, chianti ed ogni altra porcelleria  era passata  loro per la mente. Avevano deciso di festeggiare con un banchetto improvvisato il pieno di benzina che avrebbe permesso a lei di tornare a casa senza chiamare il carro attrezzi, e a lui di conoscere quella strafiga che, incredibile a dirsi, lo aveva invitato a casa sua per festeggiare la vittoria del derby. Mentre lei apriva il baule per posare le borse Roberto le disse:

sarà meglio togliere quella tanica o tutto poi puzzerà di benzina…..

già, hai ragione…- rispose la ragazza mentre lui spostava il contenitore tra i sedili. Poi, chiudendo il portellone, gli fece un cenno con la mano e con un sorriso invitante e una strizzata d’occhio gli disse:

ok, seguimi, casa mia non è molto distante.

Roberto quasi non credeva fosse possibile una situazione del genere stesse capitando proprio a lui: si sentiva parte di un sogno dal quale però non aveva alcuna voglia di svegliarsi.

Salì sulla Ritmo con troppa energia, tanto che chiudendo la portiera gli si staccò un altoparlante dal pannello è gli rotolò tra i piedi. Ma lui, eccitato com’era,  fece finta di niente e senza nascondersi una certa frenesia accese il motore.

La sera stava diventando rapidamente notte, ed una fastidiosa nebbia era improvvisamente scesa sulla strada. La ragazza guidava veloce e in maniera spregiudicata zigzagando tra le file di auto incolonnate; Roberto, la cui guida era sempre stata calma e metodica, seguiva con fatica i due fanali della sua auto; ma appena usciti dalla tangenziale si ritrovò nel traffico diretto al centro.

Gli bastò una semplice disattenzione di pochi secondi   ad un semaforo rosso, mentre cercava di recuperare l’altoparlante che gli rotolava tra i pedali, per perderla. Davanti a sé ora vedeva centinaia di fanali accesi, tutti uguali, tutti in movimento in quella dannata atmosfera lattiginosa e non sapeva più quale fosse  l’auto della ragazza. Credette di riconoscerla in una delle macchine che aveva davanti, e si lanciò all’inseguimento senza pensarci, tagliando la strada a destra e a manca. Ma dopo poco si accorse di aver sbagliato obiettivo. Non era quella.

Sconsolato si fermò lungo uno dei viali interni, imprecando contro la propria stupidità per non essersi fatto dare, se non l’indirizzo, almeno il numero di telefono.

Quando rientrò a casa, dopo due ore di girovagare a caso per la città immaginandosi di ritrovare la bionda in piedi accanto alla macchina che lo aspettava a qualche angolo di strada, la madre era ancora in cucina ad attenderlo.

Come tutte le sere si era addormentata davanti alla TV accesa con la testa reclinata sulla spalla ed un vecchio plaid sulle ginocchia.

Roberto si avvicinò piano, le posò una mano sulle sue e le sussurrò dolcemente all’orecchio:

mamma, su, svegliati è ora di andare a letto.

Gli occhi della madre lo guardarono stupiti per qualche attimo senza riconoscerlo, poi, una volta messa a fuoco l’immagine gli disse:

ah, sei tu, ma che ora è…?

E’molto tardi mamma, dovresti…

Senti – lo interruppe lei alzandosi faticosamente dal divanetto- ti ha cercato una ragazza stasera, ha detto che ti sei dimenticato i documenti nella sua spesa…..chi è? E di che spesa parla ?

Il ragazzo si fermò come pietrificato.

Bah, comunque ha lasciato il suo numero di telefono, ha detto di richiamarla appena puoi….- disse porgendogli un bigliettino.

Il ragazzo si girò verso la madre e con gli occhi che gli brillavano di felicità  le stampò un bacio sulla fronte.

Grande mamma, grande !! Buonanotte

Poi si diresse verso la sua camera saltellando come un folletto tra le mattonelle in marmiglia del corridoio,

Dalla TV in cucina gli ultimi commenti sulla penultima di andata gli giunsero come sinfonia.

lunedì 4 febbraio 2013

I TORI DI ARLES

Ho visto i tori cadere
pietre bianche a contorno
e festose bandiere
a scandire agonie
come in sagra d’amore


Nessuna lavanda
non più volo d’ape
potrà varcare quel blu
così assente
perduto negli occhi loro
strozzati alla morte.

Li han trascinati così
al cappio di due corna marroni
traccia smossa di sabbia
incisa col rosso
a indicare un confine
per altri zoccoli un po’ più fortunati

martedì 1 gennaio 2013

TRACCE



Un orologio muto
dalle ore assenti
promette squilli
che tardano a venire

E quasi fosse sera
ogni sera è sonno
e non più sogno
a tendermi la mano

Passerà
anche quest’inverno
tra i tanti ancora
in divenire
scia perduta a ritroso
come innocua
traccia di serpente

domenica 2 settembre 2012

CHIVAS REGAL



Lei è sempre là, nell’angolo più nascosto del secondo ripiano.
Io entro in cantina e la maggior parte delle volte nemmeno me la ricordo. Ma dentro di me so che è ancora addossata alla parete, coperta di polvere ormai secca, e sembra aspettare un mio gesto, la mano che si insinua tra le altre bottiglie, poi la afferra e la solleva alzandola per il collo…
L’etichetta dorata è ancora vivace come allora, e il bollino azzurro col marchio US Navy è sempre al suo posto. Lo so bene perché ciclicamente, ma senza alcuna logica, càpita di spostare scaffali e vecchie scatole, di pulire ripiani riposizionando le cose da un posto all’altro. E nel farlo succede che tra quelle cianfrusaglie che si accumulano in cantina,  ogni tanto sia il turno di vini e bevande. Tra improbabili liquori –mitica una grappa al miele, Raspamiel- e vecchi vini sulla cui qualità avrei ormai qualche dubbio, mi viene regolarmente in mano la bottiglia di Chivas. Quando ne entrai in possesso era un formato sconosciuto in Italia: un litro. Poi l’avvento di supermercati sempre più grandi e forniti deve aver moltiplicato le necessità dei consumatori, sino ad arrivare ai giorni nostri, dove tra le corsie e i carrelli si trovano senza difficoltà bottiglie che vanno dal timido mignon al possente magnum da svariati litri.
Ma il mio Chivas è una bottiglia particolare.
Io la tratto con estrema cura, come fosse cosa preziosa.
E in effetti preziosa per certi versi lo è.

* * * * *






Il vero nome del locale era Bill Of Quantity, ma per tutti era conosciuto come BoQ, da noi strafalcionato in Biuchiù.
Situato all’interno del perimetro nella base Nato di Sigonella, a pochi chilometri da Catania,  era frequentato quasi esclusivamente dalla truppa. Quei giovani Americani in divisa, qualunque fosse il colore della loro pelle, spesso si accompagnavano a ragazze rimorchiate in città e là riportate alla fine della notte. Tra il chiasso del locale e l’odore di carne bruciacchiata sulle griglie del fast food interno i tavoli si riempivano poco per volta di enormi quantità di lattine di birra vuote e portacenere colmi di mozziconi.
L’elettricità nell’aria saliva gradatamente sino a quando iniziavamo noi a suonare su quel piccolo palco addossato alla parete più lunga. Orribili tende verde oliva ci facevano da sfondo dividendoci dalle vetrate ma non ci facevamo caso. Per noi quel posto era l’America, con la A maiuscola. Il biliardo, le voci, gli accenti di ragazzi come noi, il loro entusiasmo  nel sentire le note di Santana o dei Grand Funk uscire dai nostri amplificatori, l’odore degli Hamburger e il neon con la scritta Miller Beer lampeggiante…si, per sei sere a settimana eravamo in America, in qualche punto imprecisato della Route 66. E dalle nove alle undici spaccate, quando la direzione riaccendeva le luci, noi eravamo giovani rocker in mezzo a coetanei schiamazzanti in quel locale fumoso.
Ben diversa la situazione nei locali destinati ad ufficiali e sottufficiali, dove ogni tanto ci capitava una serata. Sembrava di trovarsi su un set cinematografico. Le bottiglie maniacalmente ordinate sul muro del bar, gli specchi lustri, la postazione con bersaglio e freccette ben illuminata e le poltroncine in pelle rossa. I clienti eleganti, se per elegante si può definire chi indossa vistosi pantaloni a riquadri verdi e blu con giacca rossa e cravatta regimental su camicia hawaiana, le voci quasi sussurranti, nell’aria odori di spezie e qualche profumo dozzinale di deodorante d’ambiente. Sembravano mondi diversi, anzi, lo erano, pur coabitando la stessa pianura dove il nero della lava era punteggiato solo dal giallo delle ginestre e dalle enormi pale di fichi d’india.
Noi suonavamo al BoQ da lunedì a sabato, tutte le settimane per un lungo, sudatissimo mese. Il mese successivo era il turno di un altro gruppo che a sua volta doveva “tenere” lo stesso periodo e così via.
Nel mese di ottobre del 1975 il direttore del BoQ, un civile, il burbero e massiccio Mr. Collins, per ravvivare un poco lo spirito dei suoi clienti decise di affidare la mesata di novembre ad un gruppo inglese. Il loro spettacolo però era particolare in quanto del loro staff facevano parte due spogliarelliste che a metà dell’esibizione della band intervenivano col loro numero di nudo quasi integrale.
Grossa novità, pensammo tra di noi, peccato non poter assistere ad una loro serata.
Naturalmente, oltre ai sommovimenti ormonali dovuti all’età, c’era anche una buona dose di rivalità, il naturale antagonismo tra musicisti. Come suoneranno questi diavolo di inglesi ci chiedevamo da poveri provinciali italiani.
Credevo sarei rimasto col dubbio ma non fu così.
Appena giunti all’aeroporto di Catania i quattro simpatici Londinesi avevano pensato bene, credendo di trovarsi ancora a Piccadilly, di lasciare incustoditi i loro strumenti per qualche minuto. In men che non si dica la chitarra di Pete, così si chiamava il malcapitato chitarrista, era sparita e il giovane era rimasto così appiedato.
Venni a conoscenza della cosa quasi in tempo reale, poichè Mr. Collins mi telefonò la sera stessa chìedendomi, in qualità di chitarrista del gruppo che aveva appena concluso il mese, di dargli una mano per risolvere la situazione. Nell’attesa di fare arrivare dall’Inghilterra la seconda chitarra che Pete aveva lasciato a casa, avrei dovuto prestargli la mia per qualche giorno.
Inorridii alla richiesta.
La mia preziosa Gibson Les Paul Deluxe Gold Top era il frutto di anni di sacrifici; o meglio, il premio per la conquistata maturità. Ricordo come fosse oggi mio padre, all’inizio del quinto anno, pronunciare la fatidica frase tra il disappunto appena mascherato di mia madre:
- se sarai promosso ti compro la macchina o, se lo preferisci, una chitarra elettrica di pari valore.
L’auto sarebbe stata una 500 usata, ovvio, ma io sapevo bene che il suo valore avrebbe coperto il costo della più ambita chitarra.
Non c’era storia, secondo voi cosa avrei potuto mai scegliere?
Ridotte  le mie aspirazioni di mobilità all’uso della vecchissima Vespa 150 di mio padre, iniziai a studiare come un matto sino al raggiungimento dell’agognato premio.
Nel negozio di strumenti musicali del sig. Lanzanò gli arrivi di Gibson non erano così usuali all’epoca, e quando nell’agosto successivo all’esame ricevetti la telefonata del negoziante che mi comunicava di averla appena ricevuta, non fui sorpreso di trovare nel suo locale una piccola folla di appassionati che mi guardava con malcelata invidia.
Era come un sogno, avevo sempre desiderato quella chitarra e poterla finalmente toccare, sentendola mia, fu una sensazione mai più provata con altri oggetti.
Capirete quindi la mia riluttanza a concederla in prestito ad uno sconosciuto che era stato in grado persino di farsene rubare una da sotto il naso. Stavo quindi per rispondere no a Mr.Collins  quando una vocina interiore mi sussurrò piano: attento, puoi rifiutare, certo, ma ricorda che quell’uomo fa suonare te e la tua band diversi mesi ogni anno. Non hai nessun obbligo, ma un po’ di riconoscenza magari sarebbe dovuta, non credi?
Sapevo che era vero così, anche se un poco a malincuore, senza pensarci più di tanto gli risposi di si.
Ma ad una condizione. La mia Les Paul non avrebbe mai “dormito” fuori casa. L’avrei portata io stesso ogni sera prima dell’inizio del concerto e alla fine me la sarei riportata a casa. Il gestore accettò senza alcun problema, tanto l’onere del viaggio andata e ritorno era mio.
Compagno d’avventura fu il mio buon amico Sergio.
A bordo del suo Benelli 125 per sei sere andammo e venimmo lungo il tragitto Catania-Sigonella infagottati in pesanti giubbotti per il ritorno di  notte e con l’ingombrante custodia della chitarra tra di noi. Ad attenderci Pete, tutto sommato un bravo ragazzo coi suoi occhialoni dalle lenti spesse, e soprattutto Pam e Gwen, le due spogliarelliste con le quali purtroppo però non riuscimmo fraternizzare come avremmo voluto.
Fu una bella settimana, passata questa volta dalla parte del pubblico. Con gli occhi attaccati a turno tra quello splendido strumento color oro che dal palco sembrava parlare (merito, questo, del bravo chitarrista) e due paia di tette scultoree che, per ragioni differenti, sembravano parlare anch’esse.
L’ultima sera, mentre mi riconsegnava la chitarra, nel ringraziarmi con un abbraccio Pete mi disse che il suo strumento sarebbe arrivato l’indomani dall’Inghilterra e che il nostro aiuto non era più necessario.
All’uscita del BoQ incontrai Mr. Collins che vedendomi andare via si avvicinò e con estrema cortesia, mettendo mano al portafogli, mi chiese quanto mi doveva per il disturbo. Il gesto mi piacque ma mi imbarazzò. In fondo per me tutta l’esperienza era stata un divertimento condiviso con Sergio. La musica, le ragazze, la MIA chitarra sul palco…no, non avrei voluto niente. L’uomo annuì piano al mio fermo diniego, e fu allora che mi disse di aspettare un momento. Lesto scomparve nel retro del bar e ne uscì quasi immediatamente con una bottiglia di Chivas Regal da un litro, formato ad uso esclusivo delle forze armate Usa.
- Accetta almeno questo - mi disse strizzandomi l’occhio.
Con una stretta di mano ci lasciammo dandoci l’appuntamento a qualche mese dopo.
Appena giunto a casa posai la bottiglia sul tavolo della cucina e la osservai in maniera critica. Non ero un bevitore, tantomeno di liquori, quindi il Chivas era in un certo modo come sprecato. Avrei potuto regalarla, ma era pur sempre un oggetto indissolubilmente legato ad una situazione particolare che mi era capitata. Decisi allora solennemente che non avrei aperto quella bottiglia che per una GRANDE occasione. Avevo diciotto anni, tante idee confuse, una vita intera davanti ed ero certo che prima o poi non sarebbe mancato il motivo per assaggiare quel benedetto Chivas Regal in buona compagnia.
I giorni cominciarono a scorrermi accanto, poi i mesi a comporre anni sempre più lunghi, sempre di più tanto che…
E’ passato qualche decennio e di cose ne sono successe tante, buone e cattive, com’è nella natura del tempo e della fortuna che ci tocca.
Quali quelle davvero importanti ?
In effetti il matrimonio potrebbe essere definito importante. Solo che il giorno delle nozze Gabry ed io avevamo veramente troppe cose in testa per pensare anche al Chivas. E quando me ne ricordai la magia dell’occasione ormai era svanita, e assaporarlo anche soli quindici giorni dopo non sarebbe stata la stessa cosa.
Decisi quindi di rimandare ad altra occasione.
Dite che la nascita di un figlio, del primo figlio, può andare bene? Avete ragione, lo pensavo anch’io. Ma i due o tre giorni di ospedale necessari a Gabry per “l’espletamento” della pratica mi distrassero a tal punto che stavolta mi ricordai del Chivas il giorno del battesimo di Nicola. Diversi mesi dopo.
Anche in questo caso era troppo tardi.
E così via. La nascita del secondo figlio, un paio di traslochi, un nuovo lavoro, la nuova sudatissima casa…niente da fare. La bottiglia, per chissà quale misterioso motivo, è sempre là, sballottata da una cantina all’altra, da uno scaffale all’altro.
Ed io qui stasera a chiedermi quale sarà questo avvenimento così importante da consentirmi finalmente di togliere il tappo, versare il liquido color ambra in un bicchiere adeguato, annusarne l’aroma e finalmente degustarlo.
Un sorso per ogni anno passato forse  sarà troppo, o forse il minimo necessario per perdonare le mie dimenticanze. Chissà.
E se a furia di rimandare non dovessi essere io a sturare quel benedetto Whisky?
Hmhmmm…
Mi affaccio alla finestra, l’aria è tersa e la luna piena.
L’estate sta iniziando.
Mi sembra già un motivo più che sufficiente.
Quindi per le prossime ore non disturbatemi, sono in degustazione.