giovedì 6 giugno 2013

MOHAMED DANZERA' ANCORA


 
(in memoria di Mohamed Bouazizi – 29.03.1984 – 04.01.2011)

 




 

Quando mi laureai alla scuola centrale di informatica di Sfax non pensavo avrei potuto fare altro che quello nella vita, l'informatico. Sarebbe stato il mio destino, mi dicevo, la riscossa per la mia famiglia, i cui sacrifici per farmi studiare non sarebbero andati delusi.

Ma mi sbagliavo.

Allah sa bene quanto mi sbagliavo.

Perchè giorno per giorno nulla mi cambiava intorno, il sole era sempre più caldo, la miseria sempre più grande, e per lavoro nulla più di un semplice banco da ambulante abusivo di frutta da vendere a poco prezzo a gente più disperata di me.

Poco pane e tante rughe alle mani, poco orizzonte come destino.

E Tunisi sempre troppo lontana.

Così coi pochi soldi risparmiati un giorno ho cercato di comprarmi il diritto a vivere anch'io una vita migliore, per porre fine a questa precarietà.

Una licenza, un permesso, solo due timbri su un foglio di carta per assegnarmi la dignità di esistere, questo chiedevo.

Ma un potere ottuso, stupido prima ancora che autoritario, mi ha rifiutato, deriso ed emarginato come fossi feccia. Anche il carro con le poche cose che avevo è andato perduto, ed ora mi trovo con gli ultimi dinari che mi pesano in tasca come macigni mentre scrivo queste parole. Dovrò farli rendere al meglio per poter continuare almeno questa forma avariata di sopravvivenza oppure...quest'oggi, qui, nella piazza del mio paese cercherò di risolvere in un modo o nell'altro la mia vita. Li spenderò per una latta di benzina, un carburante da poco, sperando che qualcuno possa ancora scaldarsi a questo tipo di fiamma.

Non mi resta altro da chiedere che un metro quadro di attenzione sulla piazza di Sidi Bouzid, davanti al palazzo del governatore, per illuminarlo con quel che avanza del mio coraggio. Questo me lo dovranno concedere, e questo mi prenderò come trofeo.

Quel che resterà poi di me o delle  mie vesti sia disperso nel deserto.

Sarà Allah a giudicarmi.

A te, figlia mia, diranno che è stato tutto inutile.

Che tuo padre è morto giovane solo per un capriccio, per una fatalità cercata, un appuntamento perso con la storia così come ce la raccontano. Non sapendo, o non volendo sapere, che questa storia ce la creiamo da soli gesto dopo gesto, respiro dopo respiro.

Ti diranno forse ch'ero bello e audace prima d'invecchiare tutto in un colpo, che il fuoco arde le pieghe della pelle, ne consuma cellule e sudori sino a lacerare la carne viva come un urlo.

Ma a me non era rimasto altro che questa carne per urlare, credimi figlia mai conosciuta, mai nemmeno avuta.

Non mi sono dato il coraggio di vederti bambina giocare tra la sabbia coi colori cangianti del camaleonte tra le mani. Di vedere i tuoi occhi, che mi piace immaginare neri, guardarmi attraverso il velo quando il canto dal minareto si diffonde all'imbrunire ed il vento del deserto si intrufola tra le tende come ladro.

E non ti vedrò sposa, ornata e profumata come donna, senza me accanto, senza voci festanti, senza canti, senza danze.

Saranno fiamme oggi a danzare.  Sulla piazza Venceslao o tra i passanti di Saigon lo furono, e di quella danza resta voce ancora adesso, persino qui, persino ora tra queste ultime parole scritte dalla mia mano che inizia a tentennare.

Perdonami figlia, e perdona il mio tempo malato.

Che non è ancora il tuo.

 

L'AMORE DI TEO


 

Chiara resta sempre in cortile più a lungo degli altri.

Forse è la sua natura. La vedi china su un fiore, e mentre gli parla lo accarezza piano come fosse di vetro, e sorride. Nessuno si avvicina a disturbare quell’intimità, solo l’infermiera, quando ormai tutti sono già rientrati le tocca una spalla e le sussurra qualcosa all’orecchio per guidarla poi docilmente all’interno.

Teo la osserva in silenzio dalla finestra al primo piano dondolando leggermente avanti e indietro il capo dal naso adunco con fare ipnotico e torturandosi un’unghia coi denti sino a scoprire la carne viva. I suoi capelli sono sempre più radi e la pelle è bianca, come di chi non sopporta il sole. Ma lui non sente nulla, così perso com’è nell’immagine di Chiara, minuscolo fagotto indifeso.

Poi torna in stanza, al suo quaderno dalle orecchie logore, i fogli che nemmeno stirati riescono più a sopportare quel continuo scrivere e cancellare, scrivere e cancellare… Calligrafia stentata per lunghe file di numeri in colonna, segreti inconfessati che spuntano da chissà quale bagliore, e in chissà quale incubo vanno poi a deragliare.

E mentre scrive sogna Teo, cinquant’anni suonati ma pensieri bambini, che inseguono forse una stella, forse il volo di un’ape, spinti da quell’unico alito di vento che il suo cuore riesce ancora a percepire per poi comunque andare a ricadere sempre sul volto di Chiara.

Chiara illuminata da un raggio sole, Chiara che sorride, Chiara che cammina con la sua veste bianca. Si sente bene in quei momenti Teo, si tocca la barba di due giorni senza rendersi conto di altro che non sia il tempo che manca al prossimo incontro, lui alla finestra, lei in cortile. 

Le ore nel mezzo solo rumore bianco in sottofondo.



 

I FANTASMI DI HAYDAR


 

 

Dopo appena sei giorni il silenzio fra di loro divenne regola.

L'improvviso affondamento della nave, il piccolo ed antiquato cargo che faceva rotta tra il Mar Nero e l'Olanda,  era stato come un incubo. L'incidente era capitato a notte fonda, al largo delle coste Galiziane, quando un solo uomo era di veglia; ma l'ufficiale in seconda, il sonnacchioso Haydar Sunay, di turno in quel momento, non si era rivelato all'altezza della situazione.

L'esplosione in sala macchine aveva causato uno squarcio enorme ma l'uomo, prima di riuscire a capire di cosa si trattasse, aveva tentennato sul da farsi, ed aveva in tal modo irrimediabilmente compromesso il destino dell'equipaggio. In meno di cinque minuti la nave era colata a picco portando con sè nove uomini e, cosa inaudita, nessuno era riuscito a lanciare un SOS,

I sopravvissuti erano solo tre: il comandante, il suo secondo ed un assistente cuoco.

Il capitano White era un uomo dall'età indefinibile, magro, dal volto affilato come la lama di un coltello, i capelli biondi e gli occhi celesti che spiccavano come cristalli su di una carnagione incredibilmente chiara. Si diceva fosse inglese, ma nessuno a bordo ne era sicuro; non era mai stato visto bere una birra, e nessuno era riuscito nemmeno ad entrare nella sua cabina per cogliere qualche indizio che ne rivelasse la nazionalità. Solo la sua proverbiale riservatezza era nota a bordo.

Il secondo sopravvissuto era il vicecomandante che era di guardia la notte del disastro.  Nativo di Istanbul, Haydar Sunay aveva una cinquantina d'anni che tuttavia non dimostrava. Era piccolo di statura, aveva capelli neri ed una folta barba che gli incorniciava il volto sul quale due guance perennemente rosse erano divise da un imponente naso. Nonostante la gravità dell'accaduto sembrava aver superato la cosa con apparente noncuranza.

L'ultimo passeggero della scialuppa era un nero. Ibrhaim Al Kharsi veniva dal Senegal e lavorava nella cucina di bordo. Giovane ed atletico era sempre di buon umore, persino ora, nella situazione di emergenza nella quale i tre si trovavano. La scialuppa che Ibrhaim era riuscito disperatamente a sganciare pochi secondi prima che la nave si inabissasse era quasi totalmente priva di qualsiasi cosa potesse loro servire per sopravvivere in mare. Il piccolo apparecchio radio era fuori uso, e le razioni di viveri ed acqua che avrebbero dovuto trovarsi sotto ai sedili erano meno di un quinto di quelle previste. Una tela cerata e cinque razzi di segnalazione marciti a causa dell'umidità erano tutto ciò che avevano a disposizione. Solo il comandante, prima di finire in acqua, era riuscito a salvare il coltello multiuso dal manico in osso che abitualmente teneva nella tasca dei pantaloni.

Così, maledicendo ora l'armatore e la sua taccagneria, ora la malasorte,  si trovavano oramai da una settimana in balia dell'Oceano Atlantico, ormai quasi senza viveri e con la certezza che nessuno li stava cercando.

Dopo i primi giorni di adattamento i tre sembravano aver trovato una specie di equilibrio tra loro. Al giovane cuoco spettava ancora il compito di dividere i viveri residui sotto l'occhio attento degli altri due; le iniziali discussioni tra il comandante e il suo secondo su cosa potesse essere successo, avevano lasciato il posto a sempre più lunghi silenzi, rotti solo dai fischiettìi del giovane senegalese mentre con la cerata cercava di recuperare un poco di acqua piovana dagli  sporadici acquazzoni che li investivano.

A una decina di giorni dal naufragio la situazione si era come cristallizzata; nulla accadeva di diverso giorno per giorno, e i tre uomini passavano un'ora dopo l'altra come in trance. Solo il sig. White rimaneva ostinatamente in piedi, riparandosi gli occhi con una mano scrutava l'orizzonte in tutte le direzioni alla ricerca di qualche nave che li traesse in salvo.

E proprio lui si era rivelato il più debole del terzetto. Si agitava sempre più spesso inutilmente sulla scialuppa passando da un capo all'altro dello scafo, impartendo ordini insensati ai compagni che lo osservavano senza capire. La situazione drammatica gli aveva dato alla testa, o forse si sentiva gravato di responsabilità più grandi di quanto non riuscisse a sopportare, fattostà che il sig. White era diventato un peso più che una risorsa per i suoi compagni. Qualche occhiata furtiva  ogni tanto scattava tra il secondo e Ibrahim, ma subito gli sguardi si abbassavano per quella sorta di complicità nascente.

Fino a che una mattina Ibrahim, svegliandosi, trovò davanti a sé solo il turco, addormentato come sempre di traverso su fondo della barca.

- Ehi, capo Haydar, dov'è finito il comandante ? - esclamò allarmato.

L'uomo aprì lentamente gli occhi, infastidito da quella voce, e senza voltarsi  rispose sgarbatamente:
- Hai provato a guardare in sala macchine...? o forse no, meglio nella sua cabina...ahahahah – sogghignò mettendosi a sedere.

- Mio Dio - continuò il giovane - ma com'è possibile,  sarà caduto in acqua stanotte... era buio pesto, forse è inciampato, e col mare mosso  

sarebbe stato difficile distinguere il rumore di una caduta dallo sciabordìo ...

Il turco, senza nemmeno fingere di guardare tra le onde, rimase immobile a fissare un punto lontano all'orizzonte, come cercasse di forare la foschia con lo sguardo per individuare terra. Immobile, senza rispondere, solo annuendo lentamente col capo, quasi stesse suggellando con quel gesto l'inevitabile conclusione cui erano destinati, preceduti forse solo di qualche giorno dal comandante.

- Cazzo -riprese il cuoco - siamo rimasti solo noi due.

- Già – rispose il vecchio – solo noi.

Poi, voltandosi con studiata lentezza verso Ibrhaim, gli disse scandendo bene le parole:

- Quindi i pochi viveri che spettavano al sig. White ci daranno qualche giorno in più di possibilità, vero...?

Il nero non rispose, ma annuì abbassando il capo in segno di comprensione.

- Bene – continuò il turco tornando a sdraiarsi – bene.

Quella notte Ibrhaim quasi non chiuse occhio. Il pensiero del comandante che scompariva tra i flutti non lo abbandonava, anzi l'immagine che si era costruito nella mente, l'uomo che affoga tendendogli disperatamente le mani, lo faceva sentire quasi in colpa per l'accaduto.

L'alba lo trovò ancora vigile, mentre il secondo continuava nel suo sonno ostinato.

Al momento di dividere una delle ultime scatolette di carne residue, qualche ora dopo, il nero rimase di stucco vedendo comparire nella mano di Haydar il coltello che era stato del comandante.

La sua sorpresa non passò inosservata al turco, che maneggiando la lama con insospettata abilità, divise con un colpo secco in due parti uguali la porzione e con fare brusco gli chiese:

- che ti prende Ibrhaim, non fa lo stesso se sono io a dividere il cibo?

- Certo capo Haydar, solo mi chiedevo... quel coltello...

- Non farti strane idee, l'ho trovato sul fondo della barca dopo la scomparsa del comandante

Il giovane abbassò il capo, non riuscendo a sostenere lo sguardo deciso di sfida dell'altro.  Tuttavia riuscì a controbattere

- ...ma capo, lei è stato quasi tutto il tempo addormentato, e non si è mai mosso da lì...

- cosa vorresti insinuare ?? - quasi urlò il turco alzandosi di scatto e brandendo minaccioso l'arma.

- Nulla, capo, si calmi, non voglio dire nulla – rispose Ibrhaim in modo remissivo

- Bè, meglio così – concluse l'altro dandogli la schena e cominciando a masticare rabbiosamente l'ultimo boccone di carne del giorno.

In quel momento Ibrhaim comprese che la propria vita era in pericolo; la reazione del turco alla sua osservazione era stata spropositata ed il fatto che gli avesse nascosto d' aver ritrovato il coltello suonava per lui come una implicita confessione.

Oltre al pericolo tangibile del naufragio, della fame, della sete e con le poche residue possibilità di sopravvivenza, ora doveva anche convivere con l'ansia della presenza di Haydar, un uomo di cui non si fidava più e col quale doveva condividere quello spazio ristretto.

E fu proprio il giorno dopo, mentre in piedi scrutava l'orizzonte in cerca di qualche aiuto, che il turco colpì. Passandogli dietro con insospettabile agilità gli diede un possente spinta che lo catapultò fuori dalla barca. Quando riemerse dall'acqua gelida non gli restò che urlare

- capo Haydar, bastardo, hai fatto lo stesso anche col comandante vero?

Il secondo, seduto al centro della scialuppa, lo guardò quasi divertito, e senza alcuna emozione nella voce gli rispose:

- che differenza fa per te saperlo ?

- mi faccia salire, presto mi aiuti la prego -  disse il ragazzo cercando di avvicinarsi alla scialuppa. Ma non appena cercò di issarsi appoggiando le mani sul bordo della barca lesto l'altro estrasse il coltello dalla tasca e con un colpo deciso lo ferì tagliandogli ripetutamente le dita. Il giovane lasciò urlando la presa, scivolando nuovamente in acqua mentre una grande macchia rossa cominciava a formarglisi intorno.

- Non c'è posto per due su questa nave figliolo. Mi dispiace.

La rabbia livida negli occhi di Ibrahim copriva persino il dolore alle mani ferite ed il suo sguardo esprimeva un odio puro verso l'altro.

- Che Allah ti maledica, possa tu pagare per la mia e le altre morti le pene di ogni inferno ….un giorno ti ritroverò...-  fu l'ultima cosa che Ibrhaim riuscì a proferire prima di venire sommerso da un'onda più forte delle altre.

Haydar lo osservò in silenzio venire inghiottito dall'abisso, pulendosi la lama del coltello sui pantaloni. Poi, dopo un paio d'ore, accertatosi della definitiva scomparsa del giovane con un'ultima occhiata guardinga, si sdraiò nuovamente sul fondo della barca stringendo il coltello tra le mani e chiuse gli occhi.

 

* * *

 

Il suo vicino di casa è una brava persona.

Ma pur sapendolo Haydar limita i rapporti ad un semplice buongiorno, scambiato di fretta quando i loro passi si incrociano casualmente durante la passeggiata mattutina mentre l'altro prosegue per il molo cui tiene attraccato il suo piccolo scafo a motore. Al saluto segue immancabile il mutismo più assoluto, una forma di ignorarsi cui il vecchio è abituato.

Perchè Haydar è così, non concede confidenze a nessuno, nemmeno a quelli della propria famiglia. Almeno quel che ne resta.

Di poco oltre i settanta l'uomo vive solo. O meglio, abita una vita di serie B in una vecchia autorimessa adibita a  monolocale; un seminterrato triste, a livello del marciapiede, nella prima periferia di Anadolu Kavagy, l'ultimo centro abitato sulla riva asiatica prima che il Bosforo si apra nel Mar Nero. Il resto della casa, uno di quei condomini di due appartamenti risalente agli anni sessanta, è abitato dalla ex moglie, l'acida Feriha e dalla figlia Harika con il bambino avuto qualche anno prima frutto di un mai perdonato errore di gioventù.

L'edificio è posto all'inizio di un lotto all'ingresso del paese e si affaccia da una parte sulla strada principale che conduce ad Istanbul e dall'altra  su uno strapiombo di un paio di metri che finisce direttamente in mare.

Il terreno, lungo un centinaio di metri,  non è coltivato, eccezion fatta per un minuscolo orto attaccato alla casa e per due filari di viti che si sviluppano paralleli in lunghezza sino a finire a pochi metri dalla riva.

Ma l'acqua, in questo tratto fra il Mar Nero ed il Mediterraneo, non è mai particolarmente mossa, sicchè nessuna mareggiata ha mai minacciato il  vigneto.

Haydar vive la sua incipiente vecchiaia lavorando nel negozio di piccola ferramenta che gestisce quasi a tempo perso da oltre dieci anni e cura i suoi filari non appena possibile.  Non è la vecchiaia agiata e serena che aveva sperato, ma dentro di sé lo sa, è così dal giorno di quel maledetto naufragio, quando la sua vita aveva improvvisamente preso una piega non voluta e tutto aveva cominciato ad andargli storto; la compagnia, dalle finanze già traballanti, a causa del disastro era fallita e lui era rimasto senza lavoro. Nell'ambiente marinaro, ancora così terribilmente superstizioso, lui era ormai additato come una specie di lebbroso, lui era il sopravvissuto, l'unico sopravvissuto, e nessun equipaggio era disposto a tenerlo a bordo.

A seguito di ciò i rapporti con la famiglia si erano irrimediabilmente guastati e a nulla era servito tornare a casa e interrompere le lunghe assenze di mesi come quando era imbarcato; come se non bastasse anche la salute lo stava tradendo.

Un giorno il suo medico, osservandogli le analisi e scuotendo la testa, aveva sentenziato: devi fare del movimento, fai delle passeggiate, esci, cammina insomma.

L'uomo aveva annuito senza proferire parola, com'era nel suo carattere, ed era tornato a casa con ben chiaro in testa come comportarsi. Camminare, gli aveva prescritto il medico, e lui avrebbe camminato. Tutti i giorni, due ore al giorno. Così avrebbe fatto.

Ma di andare in paese proprio non aveva alcuna voglia. Sentirsi quegli occhi puntati addosso come spilli, immaginare le voci dietro le finestre rivangare nel suo passato “ecco, vedi, quello è Haydar, sai, quello divorziato...da giovane andava per mare” oppure, “guarda come cammina con gli occhi bassi, si dice sia l'unico superstite...”.

Si, li vedeva già complottare, costruire chissà quali supposizioni sul suo conto.

Così aveva deciso una cosa molto più semplice.

Si era comprato un paio di scarpe comode, di quelle sportive per corsa leggera, e aveva disegnato nella sua mente un percorso sul terreno dietro casa, un grande rettangolo i cui lati più lunghi costeggiavano i filari di viti mentre i corti erano da un lato la strada, dall'altro il mare. Poi aveva comiciato a camminare. Inizialmente l'erba alta gli era stata d'ostacolo, ma passaggio dopo passaggio, giorno dopo giorno lui l'aveva avuta vinta. Prima l'erba era scomparsa davanti ai suoi passi, poi la sua ostinazione, che non temeva feste o ricorrenze, era stata premiata dal progressivo comparire di un preciso sentiero sterrato. Passo dopo passo si era creato una pista battuta, una propria corsìa personale sul quale impiegare due ore ogni giorno. Mai un minuto di meno.

E come non c'era Pasqua o Kurban che impedisse quel rito, per lui agnostico, così nessuna condizione atmosferica, per quanto avversa, lo avrebbe fermato. Persino sotto alla neve, quando magari già una decina di centimetri caduti durante la notte gli ostacolava il passo, riusciva a identificare il tenue avvallamento della coltre e a percorrere spedito il suo sentiero nonostante i fiocchi cadessero ancora.

 

Quest'anno settembre è cattivo. La pioggia che cade quasi ininterrottamente da due settimane ricopre il cuore di grigio. Persino la sponda europea, a poco più di un chilometro, sembra scomparire tra quei colori smorti che si confondono all'orizzonte mescolando in una unica tinta case ed alberi come fosse cenere all'interno di una stufa.

I mercantili continuano a passare, in lenta processione, in ambo i sensi; ogni tanto una sirena lacera l'aria per farsi dare il passo da qualche pescatore che si è avventurato nel canale, poi, terminato l'eco disperso nelle anse del canale,  torna il silenzio ed il monotono ticchettìo della pioggia.

Anche stamattina Haydar sta camminando, come sempre a quest'ora. L'acqua che cade non lo infastidisce più di tanto, semmai è il fango sul sentiero a rompergli il passo rendendogli l'equilibrio instabile.

Il terreno fradicio ormai non ha più capacità di assorbimento e sul suo cammino la terra è solo fanghiglia informe.

Giunto all'estremità del suo giro Haydar si volta per tornare a casa, al coperto, e già pregusta il buon thè che si prepareà di lì a poco.

Ma proprio tra la riva e i filari, un piede gli sfugge ed inizia a scivolare verso il mare. Annaspando da terra alla ricerca di una presa l'uomo infila le mani nel fango, ma ormai la leggera pendenza  lo sta portando inevitabilmente a cadere in acqua. Con un ultimo sforzo artiglia il terreno cercando un appiglio, ma è tutto inutile, le dita lasciano piccoli solchi nel fango che subito si riempie di acqua piovana. Con un rumore sordo cade in mare e viene sommerso dal nero. Immediatamente l'istinto prende il sopravvento e l'uomo inizia a dibattersi e nuotare per raggiungere la riva che ha proprio lì, ad un metro dalla sua mano.

Ma qualcosa lo ostacola, qualcosa gli impedisce il movimento delle gambe. Terrorizzato Haydar guarda sotto di sé cercando di togliersi di dosso il giaccone impermeabile. Ma anche questo gli è impedito, qualche cosa che non riesce a definire lo sta gradualmente immobilizzando. Sono alghe, rami di alghe che sembrano danzargli intorno, portate dalle correnti e che gli si sono avvinghiate alle caviglie e intorno al corpo. Hanno la forma di braccia, lunghe e potenti braccia nere, tra le quali inorridendo gli sembra di riconoscere un volto, quello di Ibrhaim. E' un viso ancora giovane, e si protende verso di lui con un ghigno che gli ricorda quello di un teschio; le orbite vuote lo guardano dritto negli occhi e da quel vuoto sembra uscire una voce:sono tornato a prenderti.

Il terrore lo attanaglia e cerca disperatamente di divincolarsi. Ma la presa delle alghe resiste e un fascio gli avvolge il collo e lo trascina ancora più giù, sempre più verso il fondo. Ormai l'uomo è in preda al panico, quando ricorda di avere il coltello, quel coltello, nella tasca.

Con un gesto disperato lo afferra e febbrilmente cerca di recidere le erbe che lo avviluppano. Ma mentre sta per accingersi a tagliare, dall'oscurità sottostante appare una macchia bianca, un grande polipo che con mosse lente e sinuose, come fosse al rallentatore, con un tentacolo gli si avvinghia al braccio e con un altro gli strappa il coltello dalla mano.

Haydar capisce che non riuscirà mai a liberarsi da questi fantasmi, ed è questa come una rivelazione, una liberazione per l'uomo che smette di dibattersi.

L'ultimo pensiero di Haydar è per i suoi filari di vite, si immagina a primavera con le forbici in mano a potare, con l'aria tiepida di fine aprile che gli  accarezza il viso... poi un dolore acuto al petto lo scuote un'ultima volta e tutto il resto diventa buio.