Non puoi mai dire con certezza
quant’è profonda una pozzanghera finchè non ci poggi il piede.
Così in questa bella mattina di
inizio aprile non sapevo ancora se mi
sarei solo bagnato la suola della scarpa o se invece sarei finito dentro all’acqua
fino al collo.
Ero sul treno, il solito treno
che prendo tutti i giorni per andare al lavoro in tribunale, confuso tra la
miriade di pendolari. Accanto a me, in piedi nel corridoio, uomini in
impermeabile e valigetta 24 ore, donne che digitano in continuazione su
microscopici telefoni, qualche studente con lo zaino ai piedi, tutti stretti
come sardine per un'ora almeno. Alla seconda fermata sei salita tu e ti sei
piazzata accanto a me. Una trentina d’anni, due occhi verdi stupendi, bionda e
fasciata in una gonna aderentissima appena sopra al ginocchio che lasciava
intuire due bellissime gambe. Un trucco appena accennato e sottobraccio un paio
di quotidiani ed una borsetta Disegual.
Entrando ti sei poggiata a me per
non cadere, così ho potuto avvertire bene la tua presenza, il tuo seno sodo
sotto alla maglietta.
Mi scusi – hai detto a quel tipo sulla cinquantina, brizzolato e
dallo sguardo vivace, con il completo blu e la cravatta d’ordinanza, che ti
stava davanti.
Non è nulla si figuri - ti ho risposto.
Tu hai tranquillamente preso
posto accanto a me ed hai cominciato a leggere le prime pagine dei tuoi
giornali. Da dietro potevo vederli
anch’io, ma ero come inebriato dal tuo profumo, dolce ma non troppo invadente,
sensuale e ipnotico. Senza sapermi spiegare il perché ho appoggiato il mento
sulla tua spalla, in un gesto tanto naturale quanto inconsueto. Tu ti sei
istantaneamente voltata verso di me sorridendo appena.
Stai comodo così….? – mi hai detto
I visi vicini, il buon sapore del
tuo alito, le labbra che quasi si toccavano, mi sembrava di essere un’altra
persona; ma rendendomi conto della situazione paradossale mi sono come
svegliato e rialzandomi ho farfugliato un timido
Oddio, mi scusi, non so spiegarmi come è stato possibile….. io
veramente….
Ok, ok, non c’è problema, sono cose che possono succedere in treno
– mi hai risposto ammiccando -……comunque
piacere, io sono Valeria.
Piacere, Vittorio. – mi sentivo il perfetto idiota, e la cosa deve
esserti sembrata abbastanza evidente, visto che hai iniziato a guardarmi di
sottecchi, fingendo di leggere il giornale, con un sorriso leggero disegnato
sul volto. Io mi sono finalmente deciso ed ho provato con un banalissimo:
posso offrirti un caffè appena arrivati alla stazione centrale o devi
andare al lavoro?
Mi hai guardato per un secondo,
indugiando appena sulle mie labbra, poi ti è uscito quel meraviglioso
…beh, perché no, oggi sono libera, andavo in città solo per fare un
giro tra i negozi del centro
Abbiamo iniziato a parlare, come
due perfetti sconosciuti, con le rispettive verità da affermare, ma senza
prevaricazione, ognuno ascoltando l’altro con vero interesse.
In pochi minuti eravamo in stazione ma in quel
pur breve tragitto io già sapevo qualcosa di te, della tua vita da single,
dell'odio che provavi per il tuo lavoro in città e di come lo annegassi in dure
ore di allenamento in palestra.
Dentro di me avevo già deciso che
mi sarei preso un giorno di riposo e non sarei andato in udienza, mi
sostituissero con qualcun altro.
Preferirei un bar fuori da qui,
mi hai detto uscendo. Ed io sono stato ben felice di accompagnarti da
Starbucks, con le salette appartate al primo piano e le mille qualità di caffè
profumato a contorno.
Ad un certo punto ti è caduta la
borsetta dal tavolo e raccogliendola ti sei chinata divaricando appena le
gambe. Dallo spacco laterale della gonna ho intarvisto per un attimo il nero
delle autoreggenti, e per me è stato
come una frustata.
Come avrei potuto non caderci,
accarezzato dall'aroma di vaniglia e cannella che aleggiava nella stanza, perso
nello smeraldo dei tuoi occhi che ad ogni parola sembravano invitarmi ad osare
un po' di più, ed ancora un poco di più facendomi tremare la tazzina tra le
mani.
Improvvisamente mi sono sentito
come un satiro, un demone assetato cui avresti dovuto dar da bere al più
presto. Una sorta di frenesia sessuale si è impadronita di me, di noi, senza
aver alcuna voglia di contrastarla.
Già a nel primo pomeriggio ci
baciavamo appassionati come due ragazzini, strusciandoci e provocandoci l'un
l'altro; sin quando, vedendomi ormai esasperato, mi hai finalmente proposto di
seguirti.
Ed io già assaporavo...
La scarica del paralizzatore ha fatto un buon lavoro, non c'è che dire.
L'ultimo istinto quando ho visto il tuo corpo di uomo possente inerte come
un sacco di patate sul sedile è stato quello di farti soffrire, subito, un male
tanto grande quanto appagante. Tagliando, mordendo, ferendo...Ma ho preferito
lasciare perdere, riuscendo a dominarmi e continuando a guidare nel buio
deserto di questa notte inaspettatamente chiara.
Le luci si stanno diradando man mano che mi allontano dalla città e mi
dirigo verso i monti.
Ogni tanto coppie di fanali dalla luce violenta mi incrociano e mi
capita di chiedermi chi ci sia alla guida su quell'auto ignota. Cosa sta provando,
mentre torna a casa magari dopo una giornata di lavoro, o forse invece mentre
sta accompagnando un amico al treno.
Chissà le vesti che indossa, cosa ascolta, a che pensa.
O se, come in un diabolico gioco di specchi, anche lui si chiede chi
c'è dall'altra parte. In fondo, mi dico, sono solo storie qualunque che mi
sfiorano nell'oscurità.
Ad un tratto riconosco il segnale ed imbocco la strada sterrata che
inerpicandosi per la montagna taglia il bosco in due parti distinte. Alla luce
dei fari i giochi di ombre generati dalle piante e dal fogliame sono quasi un
incubo di cui anch'io faccio parte, ma al mio passaggio quel caleidoscopio
cangiante a due soli colori si ricompone nel nero che mi lascio alle spalle,
chiuso e sigillato dalla cerniera della mia auto che passa..
Ormai dovremmo essere quasi giunti
a destinazione, riconosco il sentiero che porta al lago.
Mi fermo a lato e scendendo dall'auto un brivido freddo mi coglie. Sarà
l'aria umida della riva, o forse qualche senso di colpa che inaspettato mi coglie.
Apro la portiera posteriore e alla luce fioca dell'abitacolo ti guardo
valutando tra me lo sforzo che dovrò compiere per portarti dentro.
Ma non ho ripensamenti, né malinconie che mi possano far tentennare in
ciò che sto facendo.
Sei pesante, adesso. Trascinarti fuori dall'auto è una sofferenza,
anche perchè inspiegabilmente adesso non voglio causarti dolore, come bastasse
quello che sto per fare a ricompensarmi. Ma tu non mi aiuti, nel tuo sonno
inconsapevole le maniche della tua giacca si impigliano tra i rami
ostacolandomi, mentre i miei tacchi si piantano nel terreno umido trafiggendo
strati di foglie bagnate.
Una calza mi si è anche afflosciata sulla caviglia ma non ci faccio
caso.
E' tardi, e il capanno per fortuna è poco distante.
All'interno le finestre sono oscurate, così che nessun occhio
indiscreto si possa insospettire.
Entro e chiudo a chiave la porta, poi con un ultimo sforzo ti
scaravento sul divanetto, alla luce
dell'unica lampadina della stanza.
Sposto il massiccio tavolo al centro del pavimento al di sotto del
quale la botola è appena visibile. La apro e scendo per la ripida scala a
pioli. La stanza è pronta, le pareti in sasso sono asciutte, la catena è
ancorata ad un gancio murato alla parete e in un angolo un water e un minuscolo
lavandino sono celati da una vecchia quanto inutile tenda. Mi avvicino al foro
di areazione per verificarne il funzionamento e sento l'aria fresca della notte
passarmi come carezza sul volto. Dal soffitto in legno una lampadina a tenuta
stagna emana una luce fioca che illumina le poche cose presenti: una seggiola,
la branda con le coperte, qualche libro posato sul comodino. Accanto alla
branda uno scaffale con alcune bottiglie d'acqua e qualche provvista a lunga
conservazione.
Null'altro.
Tutto è pronto ad accoglierti.
La fitta al collo è quasi
insopportabile. Il semplice contatto della pelle col colletto della camicia mi
fa vedere le stelle ma non c'è una posizione adeguata che mi salvaguardi dal
dolore. Mi sto gradualmente svegliando ma ho ancora la testa pesante.
Alla luce fioca di una lampadina
che sembra dondolarmi davanti agli occhi
tanto mi gira la testa inizio vagamente a ricordare qualcosa.
Il treno, la ragazza, il caffè,
poi mi sembra di ricordare un parco, un sotterraneo... Si, ecco, ora rammento è
stato dentro al parcheggio interrato, quando siamo andati a recuperare la sua
auto che mi si è avvicinata con quello
strano aggeggio tra le mani, e da quel momento non ricordo più nulla. Solo
qualche lampo, come un flash impazzito.
Nemmeno ora capisco dove mi
trovo.
Ho solo freddo, un gran freddo.
Cerco di muovermi ma qualcosa al piedi me lo impedisce.
Con sforzo mi metto a sedere e
osservo ciò che mi circonda man mano che riesco a metterlo a fuoco. Mi trovo in
un ambiente cupo e poco illuminato, le pareti di pietra sono spoglie ed una
pesante catena in acciaio che ho fissata alla caviglia finisce in un anello che
fuoriesce dall'unica parete in cemento armato.
Poco davanti a me la ragazza,
appoggiata ad una minuscola scala a pioli, mi fissa masticando un chewin gum,
con gli occhi che le brillano.
- Che significa tutto questo ?-
le chiedo
- Non l'hai capito vero
Vittorio ?
- Certo che no, perchè sono
legato con questa catena...e poi dove siamo...?
- Eh, siamo in luogo dove
nessuno verrà a cercarci, anzi, a cercarti.
- Ma sei pazza...? Liberami
immediatamente - le urlo con rabbia
- Smettila di agitarti, avrai
bisogno di tutte le tue energie fisiche e sopratutto mentali per parecchio
tempo.
Cerco di avventarmi contro di
lei, ma sono ancora troppo intontito e cado miseramente sul pavimento con un
assordante fragore di catene.
- Mi vuoi spiegare cosa
succede ?– le chiedo quasi implorante.
La ragazza emette un sospiro
quasi di liberazione poi comincia a parlare.
- Tu non puoi ricordarti di me
– mi dice Valeria – ero solo una bambina quando condannasti mio padre a
vent'anni di galera.
Fu una delle tue prime
sentenze sai, e con quelle parole definitive senza saperlo condannasti anche
mia madre e me, insieme a lui.
Il dolore di vederlo in
carcere, giorno dopo giorno, fu troppo grande per lei. E a poco serve ora
sapere se lui fosse innocente o meno. Il mondo ci cadde addosso, e con la
violenza di una tromba d'aria ci portò via tutto. Casa, soldi, persino gli
amici uno ad uno si dileguarono lasciandoci sole.
Mia madre non si riprese da
quel colpo basso che la vita le aveva sferrato. Iniziò a bere, a frequentare
altri uomini e dopo qualche anno, non appena io fui maggiorenne, mi abbandonò e
fuggì per chissà dove.
Io rimasi sola, a cercare di
dare un senso alla mia vita; provando a sopravvivere e contemporaneamente
curando mio padre, l'unica cosa che mi fosse rimasta a testimonianza di
un'infanzia remota ma felice.
Lo andavo a trovare ogni
settimana, e gli portavo quel sorriso che era tutto ciò che gli restava oltre
alla speranza di uscire un giorno da quel posto maledetto.
Ma anche per il lui il destino
aveva già deciso un finale differente. Un giorno si ammalò e in meno di due
mesi morì, senza essere riuscito nemmeno a... a... senza che io...- la voce
le si spezza mentre due lacrime le rigano le guance.
- Senti io... - cerco di
dire ma vengo subito bruscamente interrotto.
- Non importa – fa lei
asciugandosi il viso col dorso della mano – ormai non importa più. Quando lo
vidi steso all'obitorio per l'ultimo saluto, quando mi avvicinai al suo corpo
una volta possente ed ora pallido e sofferto, capii che era tua la colpa. Ogni
ruga del suo volto, ogni pelo della sua barba diventata bianca in carcere,
persino il giallo della nicotina attaccato alle dita per gli anni di sigarette
fumate in cella, tutto mi diceva la stessa cosa: che eri tu a dover pagare per
ciò che a me era stato rubato.
Così mi sono messa alla tua
caccia, anche se in fondo eri una preda facile. Negli ambienti giudiziari in
città sei conosciuto come donnaiolo da strapazzo, la tua vita da single non ha
segreti per i tuoi colleghi. Oltretutto la loro invidia nei tuoi confronti è
grande e manipolarne un paio per conoscere tutto di te è stato un gioco da
ragazzi; le tue abitudini, dove vivi, come ti muovi, i tuoi gusti in fatto di
donne.
Ho agito di conseguenza, e
come vedi non ho fallito.
- Ma che vuoi fare, perchè
siamo qui, perchè sono incatenato?
- Non l'hai ancora capito? Mi
spetta un risarcimento per quello che mi hai tolto.
- ...e sarebbe … ?– dico
con la voce che mi trema mentre comincia a farsi largo dentro di me una
terribile verità
- Vent'anni della tua vita.
Non un giorno di meno. Gli stessi che hai inflitto a mio padre.
- Tu sei pazza !
- Pensa ciò che vuoi, la
situazione non cambierà. Potrai urlare a squarciagola, siamo in un luogo che
nessuno conosce tranne me, e quand'anche qualcuno capitasse da queste parti per
caso, tu ti trovi sotto terra e non puoi essere udito da nessuno. Io passerò di
qui una volta alla settimana per controllarti e rifornirti di viveri. E questo
e tutto.
Sono senza parole, e incredulo
che stia capitando proprio a me la vedo risalire la scala a pioli. Ma prima di
andarsene estrae una foto da una borsa e la fissa a lato di un gradino con il
chewin gum che si è tolta dalla bocca.
Poi si volta verso di me e mi
dice:
- Ti lascio la luce accesa.
Per non dimenticare.
Il tonfo della botola che si
richiude è l'ultimo rumore che sento.
Poi improvviso scoppia un
silenzio che mi annichilisce.
Cerco di avvicinarmi alla foto
quel tanto che la catena mi consente e la osservo.
E' un vecchio scatto, un poco
ingiallito sui bordi. L'immagine è quella di una famiglia serena, sullo sfondo
un lago e delle vette innevate.
Tra i genitori una bambina
sorride felice.
Gazzettino Padano del 13 aprile
Notizie di cronaca.
Incidente mortale all’alba di oggi alla periferia di Milano.
Una giovane di 30anni, Valeria Morini, si è schiantata con la sua vettura
contro un Tir che procedeva in direzione contraria. Un colpo di sonno la
probabile causa dell'incidente. La donna è morta sul colpo e per liberarne il
corpo dalle lamiere sono intervenuti i vigili del fuoco.
* * *
Proseguono le ricerche del
giudice Vittorio Cerchi ormai scomparso da una settimana senza lasciare traccia
di sé. Ricordiamo che l'uomo è stato notato per l'ultima volta sul treno per
Milano mentre si recava al lavoro, dove però non è mai arrivato.
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