mercoledì 29 maggio 2013

C'E' POSTA PER TE


Mi ero dato per disperso
anzi no
forse già consegnato
recapito certo
nessun reclamo

Poi, un giorno
che mai ti aspetti
a sciogliere ricordi
come cartone
una pioggia improvvisa

Ora lo so.
Sono ancora merce valida
ma da accettare con riserva.

giovedì 23 maggio 2013

PENDOLARI



 

Non puoi mai dire con certezza quant’è profonda una pozzanghera finchè non ci poggi il piede.

Così in questa bella mattina di inizio aprile non sapevo ancora  se mi sarei solo bagnato la suola della scarpa o se invece sarei finito dentro all’acqua fino al collo.

Ero sul treno, il solito treno che prendo tutti i giorni per andare al lavoro in tribunale, confuso tra la miriade di pendolari. Accanto a me, in piedi nel corridoio, uomini in impermeabile e valigetta 24 ore, donne che digitano in continuazione su microscopici telefoni, qualche studente con lo zaino ai piedi, tutti stretti come sardine per un'ora almeno. Alla seconda fermata sei salita tu e ti sei piazzata accanto a me. Una trentina d’anni, due occhi verdi stupendi, bionda e fasciata in una gonna aderentissima appena sopra al ginocchio che lasciava intuire due bellissime gambe. Un trucco appena accennato e sottobraccio un paio di quotidiani ed una borsetta Disegual.

Entrando ti sei poggiata a me per non cadere, così ho potuto avvertire bene la tua presenza, il tuo seno sodo sotto alla maglietta.

Mi scusi – hai detto a quel tipo sulla cinquantina, brizzolato e dallo sguardo vivace, con il completo blu e la cravatta d’ordinanza, che ti stava davanti.

Non è nulla si figuri - ti ho risposto.

Tu hai tranquillamente preso posto accanto a me ed hai cominciato a leggere le prime pagine dei tuoi giornali. Da dietro  potevo vederli anch’io, ma ero come inebriato dal tuo profumo, dolce ma non troppo invadente, sensuale e ipnotico. Senza sapermi spiegare il perché ho appoggiato il mento sulla tua spalla, in un gesto tanto naturale quanto inconsueto. Tu ti sei istantaneamente voltata verso di me sorridendo appena.

Stai comodo così….? – mi hai detto

I visi vicini, il buon sapore del tuo alito, le labbra che quasi si toccavano, mi sembrava di essere un’altra persona; ma rendendomi conto della situazione paradossale mi sono come svegliato e rialzandomi ho farfugliato un timido

Oddio, mi scusi, non so spiegarmi come è stato possibile….. io veramente….

Ok, ok, non c’è problema, sono cose che possono succedere in treno – mi hai risposto ammiccando -……comunque piacere, io sono Valeria.

Piacere, Vittorio. – mi sentivo il perfetto idiota, e la cosa deve esserti sembrata abbastanza evidente, visto che hai iniziato a guardarmi di sottecchi, fingendo di leggere il giornale, con un sorriso leggero disegnato sul volto. Io mi sono finalmente deciso ed ho provato con un banalissimo:

posso offrirti un caffè appena arrivati alla stazione centrale o devi andare al lavoro?

Mi hai guardato per un secondo, indugiando appena sulle mie labbra, poi ti è uscito quel meraviglioso

…beh, perché no, oggi sono libera, andavo in città solo per fare un giro tra i negozi del centro

Abbiamo iniziato a parlare, come due perfetti sconosciuti, con le rispettive verità da affermare, ma senza prevaricazione, ognuno ascoltando l’altro con vero interesse.

 In pochi minuti eravamo in stazione ma in quel pur breve tragitto io già sapevo qualcosa di te, della tua vita da single, dell'odio che provavi per il tuo lavoro in città e di come lo annegassi in dure ore di allenamento in palestra.

Dentro di me avevo già deciso che mi sarei preso un giorno di riposo e non sarei andato in udienza, mi sostituissero con qualcun altro.

Preferirei un bar fuori da qui, mi hai detto uscendo. Ed io sono stato ben felice di accompagnarti da Starbucks, con le salette appartate al primo piano e le mille qualità di caffè profumato a contorno.

Ad un certo punto ti è caduta la borsetta dal tavolo e raccogliendola ti sei chinata divaricando appena le gambe. Dallo spacco laterale della gonna ho intarvisto per un attimo il nero delle autoreggenti,  e per me è stato come una frustata.

Come avrei potuto non caderci, accarezzato dall'aroma di vaniglia e cannella che aleggiava nella stanza, perso nello smeraldo dei tuoi occhi che ad ogni parola sembravano invitarmi ad osare un po' di più, ed ancora un poco di più facendomi tremare la tazzina tra le mani.

Improvvisamente mi sono sentito come un satiro, un demone assetato cui avresti dovuto dar da bere al più presto. Una sorta di frenesia sessuale si è impadronita di me, di noi, senza aver alcuna voglia di contrastarla.

Già a nel primo pomeriggio ci baciavamo appassionati come due ragazzini, strusciandoci e provocandoci l'un l'altro; sin quando, vedendomi ormai esasperato, mi hai finalmente proposto di seguirti.

Ed io già assaporavo...

 

 

 

La scarica del paralizzatore ha fatto un buon lavoro, non c'è che dire.

L'ultimo istinto quando ho visto il tuo corpo di uomo possente inerte come un sacco di patate sul sedile è stato quello di farti soffrire, subito, un male tanto grande quanto appagante. Tagliando, mordendo, ferendo...Ma ho preferito lasciare perdere, riuscendo a dominarmi e continuando a guidare nel buio deserto di questa notte inaspettatamente chiara.

Le luci si stanno diradando man mano che mi allontano dalla città e mi dirigo verso i monti.

Ogni tanto coppie di fanali dalla luce violenta mi incrociano e mi capita di chiedermi chi ci sia alla guida su quell'auto ignota. Cosa sta provando, mentre torna a casa magari dopo una giornata di lavoro, o forse invece mentre sta accompagnando un amico al treno.

Chissà le vesti che indossa, cosa ascolta, a che pensa.

O se, come in un diabolico gioco di specchi, anche lui si chiede chi c'è dall'altra parte. In fondo, mi dico, sono solo storie qualunque che mi sfiorano nell'oscurità.

Ad un tratto riconosco il segnale ed imbocco la strada sterrata che inerpicandosi per la montagna taglia il bosco in due parti distinte. Alla luce dei fari i giochi di ombre generati dalle piante e dal fogliame sono quasi un incubo di cui anch'io faccio parte, ma al mio passaggio quel caleidoscopio cangiante a due soli colori si ricompone nel nero che mi lascio alle spalle, chiuso e sigillato dalla cerniera della mia auto che passa..

Ormai dovremmo essere quasi giunti  a destinazione, riconosco il sentiero che porta al lago.

Mi fermo a lato e scendendo dall'auto un brivido freddo mi coglie. Sarà l'aria umida della riva, o forse qualche senso di colpa che inaspettato mi coglie.

Apro la portiera posteriore e alla luce fioca dell'abitacolo ti guardo valutando tra me lo sforzo che dovrò compiere per portarti dentro.

Ma non ho ripensamenti, né malinconie che mi possano far tentennare in ciò che sto facendo.

Sei pesante, adesso. Trascinarti fuori dall'auto è una sofferenza, anche perchè inspiegabilmente adesso non voglio causarti dolore, come bastasse quello che sto per fare a ricompensarmi. Ma tu non mi aiuti, nel tuo sonno inconsapevole le maniche della tua giacca si impigliano tra i rami ostacolandomi, mentre i miei tacchi si piantano nel terreno umido trafiggendo strati di foglie bagnate.

Una calza mi si è anche afflosciata sulla caviglia ma non ci faccio caso.

E' tardi, e il capanno per fortuna è poco distante.

All'interno le finestre sono oscurate, così che nessun occhio indiscreto si possa insospettire.

Entro e chiudo a chiave la porta, poi con un ultimo sforzo ti scaravento  sul divanetto, alla luce dell'unica lampadina della stanza.

Sposto il massiccio tavolo al centro del pavimento al di sotto del quale la botola è appena visibile. La apro e scendo per la ripida scala a pioli. La stanza è pronta, le pareti in sasso sono asciutte, la catena è ancorata ad un gancio murato alla parete e in un angolo un water e un minuscolo lavandino sono celati da una vecchia quanto inutile tenda. Mi avvicino al foro di areazione per verificarne il funzionamento e sento l'aria fresca della notte passarmi come carezza sul volto. Dal soffitto in legno una lampadina a tenuta stagna emana una luce fioca che illumina le poche cose presenti: una seggiola, la branda con le coperte, qualche libro posato sul comodino. Accanto alla branda uno scaffale con alcune bottiglie d'acqua e qualche provvista a lunga conservazione.

Null'altro.

Tutto è pronto ad accoglierti.

 

 

 

 

 

 

La fitta al collo è quasi insopportabile. Il semplice contatto della pelle col colletto della camicia mi fa vedere le stelle ma non c'è una posizione adeguata che mi salvaguardi dal dolore. Mi sto gradualmente svegliando ma ho ancora la testa pesante.

Alla luce fioca di una lampadina che sembra dondolarmi davanti agli  occhi tanto mi gira la testa inizio vagamente a ricordare qualcosa.

Il treno, la ragazza, il caffè, poi mi sembra di ricordare un parco, un sotterraneo... Si, ecco, ora rammento è stato dentro al parcheggio interrato, quando siamo andati a recuperare la sua auto  che mi si è avvicinata con quello strano aggeggio tra le mani, e da quel momento non ricordo più nulla. Solo qualche lampo, come un flash impazzito. 

Nemmeno ora capisco dove mi trovo.

Ho solo freddo, un gran freddo. Cerco di muovermi ma qualcosa al piedi me lo impedisce.

Con sforzo mi metto a sedere e osservo ciò che mi circonda man mano che riesco a metterlo a fuoco. Mi trovo in un ambiente cupo e poco illuminato, le pareti di pietra sono spoglie ed una pesante catena in acciaio che ho fissata alla caviglia finisce in un anello che fuoriesce dall'unica parete in cemento armato.

Poco davanti a me la ragazza, appoggiata ad una minuscola scala a pioli, mi fissa masticando un chewin gum, con gli occhi che le brillano.

- Che significa tutto questo ?- le chiedo

- Non l'hai capito vero Vittorio ?

- Certo che no, perchè sono legato con questa catena...e poi dove siamo...?

- Eh, siamo in luogo dove nessuno verrà a cercarci, anzi, a cercarti.

- Ma sei pazza...? Liberami immediatamente -  le urlo con rabbia

- Smettila di agitarti, avrai bisogno di tutte le tue energie fisiche e sopratutto mentali per parecchio tempo.

Cerco di avventarmi contro di lei, ma sono ancora troppo intontito e cado miseramente sul pavimento con un assordante fragore di catene.

- Mi vuoi spiegare cosa succede ?– le chiedo quasi implorante.

La ragazza emette un sospiro quasi di liberazione poi comincia a parlare.

- Tu non puoi ricordarti di me – mi dice Valeria – ero solo una bambina quando condannasti mio padre a vent'anni di galera.

Fu una delle tue prime sentenze sai, e con quelle parole definitive senza saperlo condannasti anche mia madre e me, insieme a lui.

Il dolore di vederlo in carcere, giorno dopo giorno, fu troppo grande per lei. E a poco serve ora sapere se lui fosse innocente o meno. Il mondo ci cadde addosso, e con la violenza di una tromba d'aria ci portò via tutto. Casa, soldi, persino gli amici uno ad uno si dileguarono lasciandoci sole.

Mia madre non si riprese da quel colpo basso che la vita le aveva sferrato. Iniziò a bere, a frequentare altri uomini e dopo qualche anno, non appena io fui maggiorenne, mi abbandonò e fuggì per chissà dove.

Io rimasi sola, a cercare di dare un senso alla mia vita; provando a sopravvivere e contemporaneamente curando mio padre, l'unica cosa che mi fosse rimasta a testimonianza di un'infanzia remota ma felice.

Lo andavo a trovare ogni settimana, e gli portavo quel sorriso che era tutto ciò che gli restava oltre alla speranza di uscire un giorno da quel posto maledetto.

Ma anche per il lui il destino aveva già deciso un finale differente. Un giorno si ammalò e in meno di due mesi morì, senza essere riuscito nemmeno a... a... senza che io...- la voce le si spezza mentre due lacrime le rigano le guance.

- Senti io... - cerco di dire ma vengo subito bruscamente interrotto.

- Non importa – fa lei asciugandosi il viso col dorso della mano – ormai non importa più. Quando lo vidi steso all'obitorio per l'ultimo saluto, quando mi avvicinai al suo corpo una volta possente ed ora pallido e sofferto, capii che era tua la colpa. Ogni ruga del suo volto, ogni pelo della sua barba diventata bianca in carcere, persino il giallo della nicotina attaccato alle dita per gli anni di sigarette fumate in cella, tutto mi diceva la stessa cosa: che eri tu a dover pagare per ciò che a me era stato rubato.

Così mi sono messa alla tua caccia, anche se in fondo eri una preda facile. Negli ambienti giudiziari in città sei conosciuto come donnaiolo da strapazzo, la tua vita da single non ha segreti per i tuoi colleghi. Oltretutto la loro invidia nei tuoi confronti è grande e manipolarne un paio per conoscere tutto di te è stato un gioco da ragazzi; le tue abitudini, dove vivi, come ti muovi, i tuoi gusti in fatto di donne.

Ho agito di conseguenza, e come vedi non ho fallito.

- Ma che vuoi fare, perchè siamo qui, perchè sono incatenato?

- Non l'hai ancora capito? Mi spetta un risarcimento per quello che mi hai tolto.

- ...e sarebbe … ?– dico con la voce che mi trema mentre comincia a farsi largo dentro di me una terribile verità

- Vent'anni della tua vita. Non un giorno di meno. Gli stessi che hai inflitto a mio padre.

- Tu sei pazza !

- Pensa ciò che vuoi, la situazione non cambierà. Potrai urlare a squarciagola, siamo in un luogo che nessuno conosce tranne me, e quand'anche qualcuno capitasse da queste parti per caso, tu ti trovi sotto terra e non puoi essere udito da nessuno. Io passerò di qui una volta alla settimana per controllarti e rifornirti di viveri. E questo e tutto.

Sono senza parole, e incredulo che stia capitando proprio a me la vedo risalire la scala a pioli. Ma prima di andarsene estrae una foto da una borsa e la fissa a lato di un gradino con il chewin gum che si è tolta dalla bocca.

Poi si volta verso di me e mi dice:

- Ti lascio la luce accesa. Per non dimenticare.

Il tonfo della botola che si richiude è l'ultimo rumore che sento.

Poi improvviso scoppia un silenzio che mi annichilisce.

Cerco di avvicinarmi alla foto quel tanto che la catena mi consente e la osservo.

E' un vecchio scatto, un poco ingiallito sui bordi. L'immagine è quella di una famiglia serena, sullo sfondo un lago e delle vette innevate.

Tra i genitori una bambina sorride felice.

 

 

 

Gazzettino Padano del 13 aprile

Notizie di cronaca.

 

Incidente mortale  all’alba di oggi alla periferia di Milano. Una giovane di 30anni, Valeria Morini, si è schiantata con la sua vettura contro un Tir che procedeva in direzione contraria. Un colpo di sonno la probabile causa dell'incidente. La donna è morta sul colpo e per liberarne il corpo dalle lamiere sono intervenuti i vigili del fuoco.

* * *

Proseguono le ricerche del giudice Vittorio Cerchi ormai scomparso da una settimana senza lasciare traccia di sé. Ricordiamo che l'uomo è stato notato per l'ultima volta sul treno per Milano mentre si recava al lavoro, dove però non è mai arrivato.

EFFETTI COLLATERALI DEL CALCIOSCOMMESSE


 

Quando mise in moto l’auto era quasi sera in quella domenica di novembre 89.

Una giornata come un’altra, in una Milano  dai colori spenti come una vecchia cartolina in bianco e nero, passata in una casa altrettanto grigia e fredda.

Roberto, che non aveva ancora una ragazza, l’aveva trascorsa con l’orecchio attaccato alla radiolina a transistor ascoltando i risultati delle partite di calcio, chiuso nella sua camera al quinto piano della casa popolare di periferia dove viveva con l’anziana madre.

Ogni tanto lei si affacciava alla sua stanza, cercando di perforare con lo sguardo l’oscurità calante tra i fori delle tapparelle, poi immancabilmente gli diceva qualcosa, probabilmente  solo per sentirne la voce risponderle.

Roberto stai leggendo ?

No mamma,  sono quasi al buio…come potrei ?

Ah…

E dopo un quarto d’ora

Roberto ti faccio un thè…?

Come vuoi mamma

Si, ora lo preparo

E così via per tutto il pomeriggio.

Ma quel giorno era accaduto qualcosa di diverso a turbare l’anonimo andazzo delle ore: l’Inter aveva perso il derby. Ed aveva perso male, tre a zero, contro i cugini rossoneri che veleggiavano nella parte medio bassa della classifica. La sconfitta aveva però degli effetti preoccupanti sulla classifica di serie A: i nerazzurri, alla seconda sconfitta consecutiva, erano stati avvicinati dagli odiati Juventini che ora si trovavano, terzi, ad un solo punto. Poco più avanti, ma ancora raggiungibile, il Napoli.

Roberto era un convinto tifoso interista sin dalla nascita, ma non era un ultras;  nei suoi ventotto anni di vita non era mai andato allo stadio, lui sempre così riservato e quasi timoroso di infastidire non avrebbe mai potuto confondersi col tifo chiassoso e caciarone di una curva. Preferiva coltivare la sua passione  da casa ascoltando, come faceva da bambino in compagnia del padre, “tutto il calcio minuto per minuto”, e lasciando alla propria fantasia il compito di immaginare azioni e passaggi descritti dalle voci dei telecronisti.

a te Ameri….” E subito nella sua mente la giornata di vento e di sole a Lecce si trasformava nella pioggia sottile di Torino mentre la voce roca del cronista iniziava con l’immancabile “qui a Torino la situazione è immutata….”.

Magari in cuor suo sognando di cantare i cori dei tifosi interisti “chi non salta juventino è…è” e così via, ma senza mai aver avuto il coraggio di indossare anche una semplice sciarpa ad indicare la propria  appartenenza.

Quel pomeriggio Roberto era deluso. Nei giorni precedenti si era lasciato andare sul lavoro, e ancor di più al bar, giurando e spergiurando che l’Inter avrebbe chiuso in testa il girone di andata con una domenica di anticipo. Ed era tanto convinto della cosa che si era addirittura voluto concedere una cosa per lui assolutamente inusuale: aveva scommesso dei soldi sulla vittoria dell’imminente derby.

Poca roba certo, adeguata alle sue magre finanze di ragioniere assunto in via definitiva da poco tempo, ma comunque una sommetta che in caso di perdita non avrebbe potuto destinare all’acquisto di quello che era l’oggetto dei suoi desideri: un piccolo televisore a colori, un semplice 14 pollici, da mettersi in camera per potersi guardare in santa pace la tv steso sul letto senza dover rendere conto alla mamma.

Sicchè, accendendo il motore della sua vecchia Fiat Ritmo azzurra, ereditata dal padre, si era messo la mano in tasca per toccare per l’ultima volta la busta col gruzzoletto, tutto in pezzi da diecimila lire, che stava per consegnare al vincitore, il proprietario del bar che da dietro al bancone lo aspettava con un ghigno beffardo.

Maledisse prima Van Basten, poi il Milan tutto e infine la propria stupidità che lo aveva portato a questo bel risultato, e si ripromise di non dire nulla alla madre; le avrebbe magari inventato di aver perso la busta coi soldi tra la folla o che gliel’avevano rubata in tram. Qualcosa, insomma,  avrebbe escogitato.

Mentre tornava dal bar, dove era stato anche adeguatamente schernito dal vincitore della scommessa e dalla compagnia dei presenti, decise di non aver voglia di tornare subito a casa; l’idea di trovarsi sotto gli assilli della madre non gli piaceva, avrebbe fatto un giro largo in tangenziale, tra le auto dei domenicali di ritorno dalla gita al lago o dalla visita ai parenti fuori Milano.

E fu proprio in tangenziale che, in lontananza, vide le luci intermittenti di un’auto ferma nella corsia di emergenza. Istintivamente rallentò e con lo sguardo famelico del passante curioso, si avvicinò con cautela. Accanto all’auto, col cofano aperto, un ragazza stupenda. Nella luce del crepuscolo, illuminata a tratti dai fari delle auto che sfrecciavano accanto, gli parve bellissima: bionda, con una minigonna a pieghe che dondolando lasciava intravedere quasi l’orlo delle mutandine, un giubbotto sintetico multicolore e un paio di scarponcini Timberland ai piedi. In quel momento si girò verso il bagagliaio, sul retro della macchina, chinandosi forse a cercare il triangolo e così facendo le si scoprirono le chiappe quel tanto che bastava a farlo distrarre e frenare di botto istintivamente mentre dalla bocca gli sfuggiva un sonoro Ollamadoooonna…!

Dietro di lui quasi immediatamente partì un coro di clacson inferociti a fargli da sottofondo.

Pensando che lo strombazzamento fosse rivolto a lei la bionda si rialzò e con ampi gesti del braccio sembrò mandare a quel paese tutta la fila che nel frattempo si stava formando.

Roberto, con l’auto quasi ferma in mezzo alla corsia, si scosse e senza pensarci due volte accostò davanti a quella della ragazza.

Posso esserti utile ?– disse appena sceso mentre due stupendi occhi verdi osservavano quel ragazzo dall’aria stralunata con gli occhialini posati un poco di traverso sul naso.

Maccheccacchio ne so……. Sta macchina del  menga non ne vuol sapere di andare……; stavo tornando a casa da San Siro per andare a fare casino in piazza con gli amici del Milanclub e sta cazzo di carriola a vapore ha cominciato a sputacchiare e singhiozzare, poi dopo un po’ si è proprio fermata del tutto e adesso non ne vuol sapere di ripartire. – disse la ragazza con gli occhi luccicanti  di rabbia a malapena repressa.

Dio che incazzatura …..che quelli mica mi aspettano - riprese tirando un calcio non troppo convinto a una gomma.

Roberto, che di automobili non aveva nessuna nozione se non quelle –esclusivamente teoriche- relative al cambio di una ruota, assunse un’aria preoccupata, cercando di dare di sé un’immagine rassicurante.

Hmh, vediamo cosa può essere….-disse avvicinandosi al cofano aperto.

Nel contempo gli cadde lo sguardo sulla bandiera rossonera che si intravedeva avvolta e posata sul sedile posteriore.

Ecco l’insidia, ti pareva…..-pensò- certo che questa ragazza è così carina….

Con fare pensieroso girò un poco intorno alla macchina mentre lei lo seguiva con sguardo titubante.

Ma la benzina c’è nel serbatoio…..? chiese improvvisamente lui come fulminato da una illuminazione divina.

Ah bèh….la benzina…..si certo, credo che ci sia – rispose incerta lei.

 

---

 

Uscendo dall’autogrill i due rivolsero un ultimo sguardo complice all’interno verso la cassiera che li salutava sorridendo. Roberto si tirava dietro una borsa colma di salumi, pane sardo, chianti ed ogni altra porcelleria  era passata  loro per la mente. Avevano deciso di festeggiare con un banchetto improvvisato il pieno di benzina che avrebbe permesso a lei di tornare a casa senza chiamare il carro attrezzi, e a lui di conoscere quella strafiga che, incredibile a dirsi, lo aveva invitato a casa sua per festeggiare la vittoria del derby. Mentre lei apriva il baule per posare le borse Roberto le disse:

sarà meglio togliere quella tanica o tutto poi puzzerà di benzina…..

già, hai ragione…- rispose la ragazza mentre lui spostava il contenitore tra i sedili. Poi, chiudendo il portellone, gli fece un cenno con la mano e con un sorriso invitante e una strizzata d’occhio gli disse:

ok, seguimi, casa mia non è molto distante.

Roberto quasi non credeva fosse possibile una situazione del genere stesse capitando proprio a lui: si sentiva parte di un sogno dal quale però non aveva alcuna voglia di svegliarsi.

Salì sulla Ritmo con troppa energia, tanto che chiudendo la portiera gli si staccò un altoparlante dal pannello è gli rotolò tra i piedi. Ma lui, eccitato com’era,  fece finta di niente e senza nascondersi una certa frenesia accese il motore.

La sera stava diventando rapidamente notte, ed una fastidiosa nebbia era improvvisamente scesa sulla strada. La ragazza guidava veloce e in maniera spregiudicata zigzagando tra le file di auto incolonnate; Roberto, la cui guida era sempre stata calma e metodica, seguiva con fatica i due fanali della sua auto; ma appena usciti dalla tangenziale si ritrovò nel traffico diretto al centro.

Gli bastò una semplice disattenzione di pochi secondi   ad un semaforo rosso, mentre cercava di recuperare l’altoparlante che gli rotolava tra i pedali, per perderla. Davanti a sé ora vedeva centinaia di fanali accesi, tutti uguali, tutti in movimento in quella dannata atmosfera lattiginosa e non sapeva più quale fosse  l’auto della ragazza. Credette di riconoscerla in una delle macchine che aveva davanti, e si lanciò all’inseguimento senza pensarci, tagliando la strada a destra e a manca. Ma dopo poco si accorse di aver sbagliato obiettivo. Non era quella.

Sconsolato si fermò lungo uno dei viali interni, imprecando contro la propria stupidità per non essersi fatto dare, se non l’indirizzo, almeno il numero di telefono.

Quando rientrò a casa, dopo due ore di girovagare a caso per la città immaginandosi di ritrovare la bionda in piedi accanto alla macchina che lo aspettava a qualche angolo di strada, la madre era ancora in cucina ad attenderlo.

Come tutte le sere si era addormentata davanti alla TV accesa con la testa reclinata sulla spalla ed un vecchio plaid sulle ginocchia.

Roberto si avvicinò piano, le posò una mano sulle sue e le sussurrò dolcemente all’orecchio:

mamma, su, svegliati è ora di andare a letto.

Gli occhi della madre lo guardarono stupiti per qualche attimo senza riconoscerlo, poi, una volta messa a fuoco l’immagine gli disse:

ah, sei tu, ma che ora è…?

E’molto tardi mamma, dovresti…

Senti – lo interruppe lei alzandosi faticosamente dal divanetto- ti ha cercato una ragazza stasera, ha detto che ti sei dimenticato i documenti nella sua spesa…..chi è? E di che spesa parla ?

Il ragazzo si fermò come pietrificato.

Bah, comunque ha lasciato il suo numero di telefono, ha detto di richiamarla appena puoi….- disse porgendogli un bigliettino.

Il ragazzo si girò verso la madre e con gli occhi che gli brillavano di felicità  le stampò un bacio sulla fronte.

Grande mamma, grande !! Buonanotte

Poi si diresse verso la sua camera saltellando come un folletto tra le mattonelle in marmiglia del corridoio,

Dalla TV in cucina gli ultimi commenti sulla penultima di andata gli giunsero come sinfonia.