domenica 2 settembre 2012

L'UOVO



Mamma Santina era una donna forte.
Vestiva ancora rigorosamente in nero, essendo rimasta vedova poco dopo la nascita di Saro, il terzo figlio. Da da allora aveva intrapreso la missione, almeno così lei la riteneva, di allevare i figli nella maniera migliore possibile.
La masseria ereditata dal marito, una delle rare realtà contadine autonome nella Sicilia degli anni 20, era grande, troppo grande da guidare senza un uomo ma la donna si era rimboccata le maniche ed aveva cominciato a darsi da fare sin da subito; e giorno dopo giorno era riuscita, alternando alle notti in bianco passate ad allattare faticose giornate nei campi, a far crescere i tre bambini senza agiatezze, anzi spesso con la fame compagna del giorno sino a sera, ma onestamente, e sopratutto insieme, rifondando da zero quella famiglia di cui era stata privata con la morte del marito.
Certo qualche sacrificio era stato necessario, nessuno dei tre aveva frequentato per più di un paio di anni la scuola dell'obbligo, ed i loro vestiti, passati dal più grande al piccolo come cosa naturale, erano lucidi dall'uso prolungato, ove non rammendati. Tuttavia sapevano di pulito, e lei si specchiava orgogliosa nei loro sorrisi quando li vedeva rientrare dal lavoro.
Stravolti dal caldo e dalla fatica, con le schiene bruciate  dal sole,  Giuseppe, Antonio e Saro tornavano ogni sera dai campi adiacenti l'abitazione principale della masseria.
Posta su di un rialzo del terreno la casa, piccola ma ombreggiata da una vivace oasi di piante d'alto fusto, dominava gli appezzamenti coltivati. Il grano verso destra, curato da Giuseppe, avrebbe dato loro il sostentamento per quasi tutto l'anno, se il raccolto fosse stato sufficiente ed il prodotto di buona qualità.
Il grande orto al centro era curato da Antonio, 17 anni, sempre intento a seminare, zappare, tagliare, nuove specie di ortaggi per il fabbisogno famigliare.
A Saro, il più giovane coi suoi 15 anni, era stata invece affidata la responsabilità del vigneto che si stendeva sulla collina. I vitigni erano piccoli, non più di un metro da terra per consentire all'umidità raccolta dalle radici un percorso breve verso i grappoli prima che il calore intenso ne seccasse il tronco; ma l'uva era pregiata ed avrebbe generato un superbo vino da taglio.
Da un paio di anni però le cose non andavano bene; una perdurante siccità aveva quasi prosciugato il pozzo, rendendo difficile persino la coltivazione degli ortaggi di stagione; e anche gli animali dell'aia, come in una partita a domino con la disgrazia, avevano cominciato a  morire uno dopo l'altro per qualche malattia ignota. E ora Santina era rimasta solo con due galline a razzolarle in cortile, disorientate forse da tanta solitudine.
Anche i ragazzi erano delusi; il loro impegno quotidiano non sembrava sortire alcun effetto e la terra, più arida che mai, non restituiva nulla ai loro sforzi, né forse lo avrebbe fatto ancora per chissa quanto tempo. Così ogni sera a Santina si stringeva il cuore nel vederli rientrare impolverati a testa bassa e senza nemmeno rivolgersi la parola; la cena, davanti a quel poco che si riusciva a mettere insieme, era l'unica occasione in cui poter parlare, ma anche quel momento era cupo, e la donna avvertiva forse per la prima volta nei figli la voglia di cambiamento.
Una sera aveva sentito Antonio raccontare ai fratelli di alcuni amici che erano partiti per l'America qualche mese prima; e mentre ne parlava gli brillavano gli occhi. Santina, che sapeva interpretare i desideri dei suoi ragazzi, aveva bruscamente chiuso il discorso dicendo che gli amici suoi non avevano una terra da coltivare e la masseria da mandare avanti.
Così ai tre non era rimasto che continuare a sognare col capo chino sul piatto vuoto mentre Antonio mormorava uno sconsolato “comu vuliti”.
La cena della sera dopo fu ancora più misera, solo un poco di pasta coi broccoli condita con uno striminzito filo d'olio ad insaporire il tutto ed un pezzo di pane duro come la pietra. I figli non si lamentavano mai, ma quella sera a lei sembrò di leggere nei loro occhi una tacita accusa che la fece sentire impotente davanti alle avversità.
Ma la parola resa non faceva parte del suo vocabolario.
Così la mattina dopo, nascondendo in un fagotto una delle ultime uova che teneva gelosamente custodite nella madia, prese in disparte Giuseppe prima che uscisse e gli disse:
- pigghiti st'ovu e ammuccialu, è l'uttimo rimasto e oggi tu rugnu attia pi' ddariti a fozza 'i travagghiari chiù fotti e l'autri. M'arraccumannu però....mutu 'a stari. *
Il ragazzo la guardò sorpreso poi, con un impercettibile cenno di assenso,  si infilò l'uovo in tasca ed usciì per raggiungere il campo.
La madre lo seguì con lo sguardo sin che lui fu lontano, perso dietro le grandi pale di fico d'inda che crescevano a lato del muretto di confine.
La stessa cosa Santina fece separatamente con Antonio prima e con Saro poi.
Ad ognuno di loro consegnò nascostamente un uovo, intimando di non farne parola con nessuno dei fratelli.
Soddisfatta li osservò raggiungere ognuno il proprio lavoro e rientrò in casa.
Mentre qualche ora dopo il sole a picco arroventava  le teste, le schiene ricoperte dal sudore  rivelavano lucide geografie di muscoli in movimento. Nel frattempo Santina rammendava vecchie camicie logore nell'ombra del portico osservando la campagna immobile intorno.
Qualche rado volo di uccelli a turbare l'afa crescente era la  sua unica distrazione, ma durava solo un attimo. Incurante del trascorrere lento del tempo lei riprendeva il lavoro di ago e filo alternandolo, come condottiero sul campo di battaglia, a guardinghe occhiate per controllare le sue truppe.
E quando, schiantato dalla fatica, uno dei tre si rialzava dal lavoro per rifiatare anche un solo momento, in lontananza giungeva inconfondibile la voce di Santina ad ammonire:
- ariccodditi l'ovu....












* prendi quest'uovo e nascondilo, è l'ultimo rimasto e oggi lo do a te perchè tu possa lavorare più forte degli altri. Però mi raccomando, non parlarne con nessuno


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