Chiara resta sempre in cortile più a lungo degli
altri.
Forse è la sua natura. La vedi china su un fiore,
e mentre gli parla lo accarezza piano come fosse di vetro, e sorride. Nessuno
si avvicina a disturbare quell’intimità, solo l’infermiera, quando ormai tutti
sono già rientrati le tocca una spalla e le sussurra qualcosa all’orecchio per
guidarla poi docilmente all’interno.
Teo la osserva in silenzio dalla finestra al
primo piano dondolando leggermente avanti e indietro il capo dal naso adunco
con fare ipnotico e torturandosi un’unghia coi denti sino a scoprire la carne
viva. I suoi capelli sono sempre più radi e la pelle è bianca, come di chi non
sopporta il sole. Ma lui non sente nulla, così perso com’è nell’immagine di Chiara,
minuscolo fagotto indifeso.
Poi torna in stanza, al suo quaderno dalle
orecchie logore, i fogli che nemmeno stirati riescono più a sopportare quel
continuo scrivere e cancellare, scrivere e cancellare… Calligrafia stentata per
lunghe file di numeri in colonna, segreti inconfessati che spuntano da chissà
quale bagliore, e in chissà quale incubo vanno poi a deragliare.
E mentre scrive sogna Teo, cinquant’anni suonati
ma pensieri bambini, che inseguono forse una stella, forse il volo di un’ape,
spinti da quell’unico alito di vento che il suo cuore riesce ancora a percepire
per poi comunque andare a ricadere sempre sul volto di Chiara.
Chiara illuminata da un raggio sole, Chiara che
sorride, Chiara che cammina con la sua veste bianca. Si sente bene in quei momenti
Teo, si tocca la barba di due giorni senza rendersi conto di altro che non sia
il tempo che manca al prossimo incontro, lui alla finestra, lei in
cortile.
Le ore nel mezzo solo rumore bianco in
sottofondo.
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