Lei è sempre là, nell’angolo più nascosto del secondo ripiano.
Io entro in cantina e la maggior parte delle volte nemmeno me la ricordo. Ma dentro di me so che è ancora addossata alla parete, coperta di polvere ormai secca, e sembra aspettare un mio gesto, la mano che si insinua tra le altre bottiglie, poi la afferra e la solleva alzandola per il collo…
L’etichetta dorata è ancora vivace come allora, e il bollino azzurro col marchio US Navy è sempre al suo posto. Lo so bene perché ciclicamente, ma senza alcuna logica, càpita di spostare scaffali e vecchie scatole, di pulire ripiani riposizionando le cose da un posto all’altro. E nel farlo succede che tra quelle cianfrusaglie che si accumulano in cantina, ogni tanto sia il turno di vini e bevande. Tra improbabili liquori –mitica una grappa al miele, Raspamiel- e vecchi vini sulla cui qualità avrei ormai qualche dubbio, mi viene regolarmente in mano la bottiglia di Chivas. Quando ne entrai in possesso era un formato sconosciuto in Italia: un litro. Poi l’avvento di supermercati sempre più grandi e forniti deve aver moltiplicato le necessità dei consumatori, sino ad arrivare ai giorni nostri, dove tra le corsie e i carrelli si trovano senza difficoltà bottiglie che vanno dal timido mignon al possente magnum da svariati litri.
Ma il mio Chivas è una bottiglia particolare.
Io la tratto con estrema cura, come fosse cosa preziosa.
E in effetti preziosa per certi versi lo è.
* * * * *
Il vero nome del locale era Bill Of Quantity, ma per tutti era conosciuto come BoQ, da noi strafalcionato in Biuchiù.
Situato all’interno del perimetro nella base Nato di Sigonella, a pochi chilometri da Catania, era frequentato quasi esclusivamente dalla truppa. Quei giovani Americani in divisa, qualunque fosse il colore della loro pelle, spesso si accompagnavano a ragazze rimorchiate in città e là riportate alla fine della notte. Tra il chiasso del locale e l’odore di carne bruciacchiata sulle griglie del fast food interno i tavoli si riempivano poco per volta di enormi quantità di lattine di birra vuote e portacenere colmi di mozziconi.
L’elettricità nell’aria saliva gradatamente sino a quando iniziavamo noi a suonare su quel piccolo palco addossato alla parete più lunga. Orribili tende verde oliva ci facevano da sfondo dividendoci dalle vetrate ma non ci facevamo caso. Per noi quel posto era l’America, con la A maiuscola. Il biliardo, le voci, gli accenti di ragazzi come noi, il loro entusiasmo nel sentire le note di Santana o dei Grand Funk uscire dai nostri amplificatori, l’odore degli Hamburger e il neon con la scritta Miller Beer lampeggiante…si, per sei sere a settimana eravamo in America, in qualche punto imprecisato della Route 66. E dalle nove alle undici spaccate, quando la direzione riaccendeva le luci, noi eravamo giovani rocker in mezzo a coetanei schiamazzanti in quel locale fumoso.
Ben diversa la situazione nei locali destinati ad ufficiali e sottufficiali, dove ogni tanto ci capitava una serata. Sembrava di trovarsi su un set cinematografico. Le bottiglie maniacalmente ordinate sul muro del bar, gli specchi lustri, la postazione con bersaglio e freccette ben illuminata e le poltroncine in pelle rossa. I clienti eleganti, se per elegante si può definire chi indossa vistosi pantaloni a riquadri verdi e blu con giacca rossa e cravatta regimental su camicia hawaiana, le voci quasi sussurranti, nell’aria odori di spezie e qualche profumo dozzinale di deodorante d’ambiente. Sembravano mondi diversi, anzi, lo erano, pur coabitando la stessa pianura dove il nero della lava era punteggiato solo dal giallo delle ginestre e dalle enormi pale di fichi d’india.
Noi suonavamo al BoQ da lunedì a sabato, tutte le settimane per un lungo, sudatissimo mese. Il mese successivo era il turno di un altro gruppo che a sua volta doveva “tenere” lo stesso periodo e così via.
Nel mese di ottobre del 1975 il direttore del BoQ, un civile, il burbero e massiccio Mr. Collins, per ravvivare un poco lo spirito dei suoi clienti decise di affidare la mesata di novembre ad un gruppo inglese. Il loro spettacolo però era particolare in quanto del loro staff facevano parte due spogliarelliste che a metà dell’esibizione della band intervenivano col loro numero di nudo quasi integrale.
Grossa novità, pensammo tra di noi, peccato non poter assistere ad una loro serata.
Naturalmente, oltre ai sommovimenti ormonali dovuti all’età, c’era anche una buona dose di rivalità, il naturale antagonismo tra musicisti. Come suoneranno questi diavolo di inglesi ci chiedevamo da poveri provinciali italiani.
Credevo sarei rimasto col dubbio ma non fu così.
Appena giunti all’aeroporto di Catania i quattro simpatici Londinesi avevano pensato bene, credendo di trovarsi ancora a Piccadilly, di lasciare incustoditi i loro strumenti per qualche minuto. In men che non si dica la chitarra di Pete, così si chiamava il malcapitato chitarrista, era sparita e il giovane era rimasto così appiedato.
Venni a conoscenza della cosa quasi in tempo reale, poichè Mr. Collins mi telefonò la sera stessa chìedendomi, in qualità di chitarrista del gruppo che aveva appena concluso il mese, di dargli una mano per risolvere la situazione. Nell’attesa di fare arrivare dall’Inghilterra la seconda chitarra che Pete aveva lasciato a casa, avrei dovuto prestargli la mia per qualche giorno.
Inorridii alla richiesta.
La mia preziosa Gibson Les Paul Deluxe Gold Top era il frutto di anni di sacrifici; o meglio, il premio per la conquistata maturità. Ricordo come fosse oggi mio padre, all’inizio del quinto anno, pronunciare la fatidica frase tra il disappunto appena mascherato di mia madre:
- se sarai promosso ti compro la macchina o, se lo preferisci, una chitarra elettrica di pari valore.
L’auto sarebbe stata una 500 usata, ovvio, ma io sapevo bene che il suo valore avrebbe coperto il costo della più ambita chitarra.
Non c’era storia, secondo voi cosa avrei potuto mai scegliere?
Ridotte le mie aspirazioni di mobilità all’uso della vecchissima Vespa 150 di mio padre, iniziai a studiare come un matto sino al raggiungimento dell’agognato premio.
Nel negozio di strumenti musicali del sig. Lanzanò gli arrivi di Gibson non erano così usuali all’epoca, e quando nell’agosto successivo all’esame ricevetti la telefonata del negoziante che mi comunicava di averla appena ricevuta, non fui sorpreso di trovare nel suo locale una piccola folla di appassionati che mi guardava con malcelata invidia.
Era come un sogno, avevo sempre desiderato quella chitarra e poterla finalmente toccare, sentendola mia, fu una sensazione mai più provata con altri oggetti.
Capirete quindi la mia riluttanza a concederla in prestito ad uno sconosciuto che era stato in grado persino di farsene rubare una da sotto il naso. Stavo quindi per rispondere no a Mr.Collins quando una vocina interiore mi sussurrò piano: attento, puoi rifiutare, certo, ma ricorda che quell’uomo fa suonare te e la tua band diversi mesi ogni anno. Non hai nessun obbligo, ma un po’ di riconoscenza magari sarebbe dovuta, non credi?
Sapevo che era vero così, anche se un poco a malincuore, senza pensarci più di tanto gli risposi di si.
Ma ad una condizione. La mia Les Paul non avrebbe mai “dormito” fuori casa. L’avrei portata io stesso ogni sera prima dell’inizio del concerto e alla fine me la sarei riportata a casa. Il gestore accettò senza alcun problema, tanto l’onere del viaggio andata e ritorno era mio.
Compagno d’avventura fu il mio buon amico Sergio.
A bordo del suo Benelli 125 per sei sere andammo e venimmo lungo il tragitto Catania-Sigonella infagottati in pesanti giubbotti per il ritorno di notte e con l’ingombrante custodia della chitarra tra di noi. Ad attenderci Pete, tutto sommato un bravo ragazzo coi suoi occhialoni dalle lenti spesse, e soprattutto Pam e Gwen, le due spogliarelliste con le quali purtroppo però non riuscimmo fraternizzare come avremmo voluto.
Fu una bella settimana, passata questa volta dalla parte del pubblico. Con gli occhi attaccati a turno tra quello splendido strumento color oro che dal palco sembrava parlare (merito, questo, del bravo chitarrista) e due paia di tette scultoree che, per ragioni differenti, sembravano parlare anch’esse.
L’ultima sera, mentre mi riconsegnava la chitarra, nel ringraziarmi con un abbraccio Pete mi disse che il suo strumento sarebbe arrivato l’indomani dall’Inghilterra e che il nostro aiuto non era più necessario.
All’uscita del BoQ incontrai Mr. Collins che vedendomi andare via si avvicinò e con estrema cortesia, mettendo mano al portafogli, mi chiese quanto mi doveva per il disturbo. Il gesto mi piacque ma mi imbarazzò. In fondo per me tutta l’esperienza era stata un divertimento condiviso con Sergio. La musica, le ragazze, la MIA chitarra sul palco…no, non avrei voluto niente. L’uomo annuì piano al mio fermo diniego, e fu allora che mi disse di aspettare un momento. Lesto scomparve nel retro del bar e ne uscì quasi immediatamente con una bottiglia di Chivas Regal da un litro, formato ad uso esclusivo delle forze armate Usa.
- Accetta almeno questo - mi disse strizzandomi l’occhio.
Con una stretta di mano ci lasciammo dandoci l’appuntamento a qualche mese dopo.
Appena giunto a casa posai la bottiglia sul tavolo della cucina e la osservai in maniera critica. Non ero un bevitore, tantomeno di liquori, quindi il Chivas era in un certo modo come sprecato. Avrei potuto regalarla, ma era pur sempre un oggetto indissolubilmente legato ad una situazione particolare che mi era capitata. Decisi allora solennemente che non avrei aperto quella bottiglia che per una GRANDE occasione. Avevo diciotto anni, tante idee confuse, una vita intera davanti ed ero certo che prima o poi non sarebbe mancato il motivo per assaggiare quel benedetto Chivas Regal in buona compagnia.
I giorni cominciarono a scorrermi accanto, poi i mesi a comporre anni sempre più lunghi, sempre di più tanto che…
E’ passato qualche decennio e di cose ne sono successe tante, buone e cattive, com’è nella natura del tempo e della fortuna che ci tocca.
Quali quelle davvero importanti ?
In effetti il matrimonio potrebbe essere definito importante. Solo che il giorno delle nozze Gabry ed io avevamo veramente troppe cose in testa per pensare anche al Chivas. E quando me ne ricordai la magia dell’occasione ormai era svanita, e assaporarlo anche soli quindici giorni dopo non sarebbe stata la stessa cosa.
Decisi quindi di rimandare ad altra occasione.
Dite che la nascita di un figlio, del primo figlio, può andare bene? Avete ragione, lo pensavo anch’io. Ma i due o tre giorni di ospedale necessari a Gabry per “l’espletamento” della pratica mi distrassero a tal punto che stavolta mi ricordai del Chivas il giorno del battesimo di Nicola. Diversi mesi dopo.
Anche in questo caso era troppo tardi.
E così via. La nascita del secondo figlio, un paio di traslochi, un nuovo lavoro, la nuova sudatissima casa…niente da fare. La bottiglia, per chissà quale misterioso motivo, è sempre là, sballottata da una cantina all’altra, da uno scaffale all’altro.
Ed io qui stasera a chiedermi quale sarà questo avvenimento così importante da consentirmi finalmente di togliere il tappo, versare il liquido color ambra in un bicchiere adeguato, annusarne l’aroma e finalmente degustarlo.
Un sorso per ogni anno passato forse sarà troppo, o forse il minimo necessario per perdonare le mie dimenticanze. Chissà.
E se a furia di rimandare non dovessi essere io a sturare quel benedetto Whisky?
Hmhmmm…
Mi affaccio alla finestra, l’aria è tersa e la luna piena.
L’estate sta iniziando.
Mi sembra già un motivo più che sufficiente.
Quindi per le prossime ore non disturbatemi, sono in degustazione.