Dopo appena sei giorni il
silenzio fra di loro divenne regola.
L'improvviso affondamento della
nave, il piccolo ed antiquato cargo che faceva rotta tra il Mar Nero e
l'Olanda, era stato come un incubo.
L'incidente era capitato a notte fonda, al largo delle coste Galiziane, quando
un solo uomo era di veglia; ma l'ufficiale in seconda, il sonnacchioso Haydar
Sunay, di turno in quel momento, non si era rivelato all'altezza della
situazione.
L'esplosione in sala macchine
aveva causato uno squarcio enorme ma l'uomo, prima di riuscire a capire di cosa
si trattasse, aveva tentennato sul da farsi, ed aveva in tal modo
irrimediabilmente compromesso il destino dell'equipaggio. In meno di cinque
minuti la nave era colata a picco portando con sè nove uomini e, cosa inaudita,
nessuno era riuscito a lanciare un SOS,
I sopravvissuti erano solo tre:
il comandante, il suo secondo ed un assistente cuoco.
Il capitano White era un uomo
dall'età indefinibile, magro, dal volto affilato come la lama di un coltello, i
capelli biondi e gli occhi celesti che spiccavano come cristalli su di una
carnagione incredibilmente chiara. Si diceva fosse inglese, ma nessuno a bordo
ne era sicuro; non era mai stato visto bere una birra, e nessuno era riuscito
nemmeno ad entrare nella sua cabina per cogliere qualche indizio che ne
rivelasse la nazionalità. Solo la sua proverbiale riservatezza era nota a
bordo.
Il secondo sopravvissuto era il
vicecomandante che era di guardia la notte del disastro. Nativo di Istanbul, Haydar Sunay aveva una
cinquantina d'anni che tuttavia non dimostrava. Era piccolo di statura, aveva
capelli neri ed una folta barba che gli incorniciava il volto sul quale due
guance perennemente rosse erano divise da un imponente naso. Nonostante la
gravità dell'accaduto sembrava aver superato la cosa con apparente noncuranza.
L'ultimo passeggero della
scialuppa era un nero. Ibrhaim Al Kharsi veniva dal Senegal e lavorava nella
cucina di bordo. Giovane ed atletico era sempre di buon umore, persino ora,
nella situazione di emergenza nella quale i tre si trovavano. La scialuppa che
Ibrhaim era riuscito disperatamente a sganciare pochi secondi prima che la nave
si inabissasse era quasi totalmente priva di qualsiasi cosa potesse loro
servire per sopravvivere in mare. Il piccolo apparecchio radio era fuori uso, e
le razioni di viveri ed acqua che avrebbero dovuto trovarsi sotto ai sedili
erano meno di un quinto di quelle previste. Una tela cerata e cinque razzi di
segnalazione marciti a causa dell'umidità erano tutto ciò che avevano a
disposizione. Solo il comandante, prima di finire in acqua, era riuscito a
salvare il coltello multiuso dal manico in osso che abitualmente teneva nella
tasca dei pantaloni.
Così, maledicendo ora l'armatore
e la sua taccagneria, ora la malasorte,
si trovavano oramai da una settimana in balia dell'Oceano Atlantico,
ormai quasi senza viveri e con la certezza che nessuno li stava cercando.
Dopo i primi giorni di
adattamento i tre sembravano aver trovato una specie di equilibrio tra loro. Al
giovane cuoco spettava ancora il compito di dividere i viveri residui sotto
l'occhio attento degli altri due; le iniziali discussioni tra il comandante e
il suo secondo su cosa potesse essere successo, avevano lasciato il posto a
sempre più lunghi silenzi, rotti solo dai fischiettìi del giovane senegalese
mentre con la cerata cercava di recuperare un poco di acqua piovana dagli sporadici acquazzoni che li investivano.
A una decina di giorni dal
naufragio la situazione si era come cristallizzata; nulla accadeva di diverso
giorno per giorno, e i tre uomini passavano un'ora dopo l'altra come in trance.
Solo il sig. White rimaneva ostinatamente in piedi, riparandosi gli occhi con
una mano scrutava l'orizzonte in tutte le direzioni alla ricerca di qualche
nave che li traesse in salvo.
E proprio lui si era rivelato il
più debole del terzetto. Si agitava sempre più spesso inutilmente sulla
scialuppa passando da un capo all'altro dello scafo, impartendo ordini
insensati ai compagni che lo osservavano senza capire. La situazione drammatica
gli aveva dato alla testa, o forse si sentiva gravato di responsabilità più
grandi di quanto non riuscisse a sopportare, fattostà che il sig. White era
diventato un peso più che una risorsa per i suoi compagni. Qualche occhiata furtiva ogni tanto scattava tra il secondo e Ibrahim,
ma subito gli sguardi si abbassavano per quella sorta di complicità nascente.
Fino a che una mattina Ibrahim,
svegliandosi, trovò davanti a sé solo il turco, addormentato come sempre di
traverso su fondo della barca.
- Ehi, capo Haydar, dov'è
finito il comandante ? - esclamò allarmato.
L'uomo aprì lentamente gli occhi, infastidito da quella
voce, e senza voltarsi rispose
sgarbatamente:
- Hai provato a guardare in sala macchine...? o forse no, meglio nella sua
cabina...ahahahah – sogghignò mettendosi a sedere.
- Mio Dio - continuò il
giovane - ma com'è possibile, sarà
caduto in acqua stanotte... era buio pesto, forse è inciampato, e col mare
mosso
sarebbe stato difficile
distinguere il rumore di una caduta dallo sciabordìo ...
Il turco, senza nemmeno fingere
di guardare tra le onde, rimase immobile a fissare un punto lontano
all'orizzonte, come cercasse di forare la foschia con lo sguardo per
individuare terra. Immobile, senza rispondere, solo annuendo lentamente col
capo, quasi stesse suggellando con quel gesto l'inevitabile conclusione cui
erano destinati, preceduti forse solo di qualche giorno dal comandante.
- Cazzo -riprese il cuoco -
siamo rimasti solo noi due.
- Già – rispose il vecchio
– solo noi.
Poi, voltandosi con studiata
lentezza verso Ibrhaim, gli disse scandendo bene le parole:
- Quindi i pochi viveri che
spettavano al sig. White ci daranno qualche giorno in più di possibilità,
vero...?
Il nero non rispose, ma annuì
abbassando il capo in segno di comprensione.
- Bene – continuò il turco
tornando a sdraiarsi – bene.
Quella notte Ibrhaim quasi non
chiuse occhio. Il pensiero del comandante che scompariva tra i flutti non lo
abbandonava, anzi l'immagine che si era costruito nella mente, l'uomo che affoga
tendendogli disperatamente le mani, lo faceva sentire quasi in colpa per
l'accaduto.
L'alba lo trovò ancora vigile,
mentre il secondo continuava nel suo sonno ostinato.
Al momento di dividere una delle
ultime scatolette di carne residue, qualche ora dopo, il nero rimase di stucco
vedendo comparire nella mano di Haydar il coltello che era stato del
comandante.
La sua sorpresa non passò
inosservata al turco, che maneggiando la lama con insospettata abilità, divise
con un colpo secco in due parti uguali la porzione e con fare brusco gli
chiese:
- che ti prende Ibrhaim, non
fa lo stesso se sono io a dividere il cibo?
- Certo capo Haydar, solo mi
chiedevo... quel coltello...
- Non farti strane idee, l'ho
trovato sul fondo della barca dopo la scomparsa del comandante
Il giovane abbassò il capo, non
riuscendo a sostenere lo sguardo deciso di sfida dell'altro. Tuttavia riuscì a controbattere
- ...ma capo, lei è stato
quasi tutto il tempo addormentato, e non si è mai mosso da lì...
- cosa vorresti insinuare ??
- quasi urlò il turco alzandosi di scatto e brandendo minaccioso l'arma.
- Nulla, capo, si calmi, non
voglio dire nulla – rispose Ibrhaim in modo remissivo
- Bè, meglio così –
concluse l'altro dandogli la schena e cominciando a masticare rabbiosamente l'ultimo
boccone di carne del giorno.
In quel momento Ibrhaim comprese
che la propria vita era in pericolo; la reazione del turco alla sua
osservazione era stata spropositata ed il fatto che gli avesse nascosto d' aver
ritrovato il coltello suonava per lui come una implicita confessione.
Oltre al pericolo tangibile del
naufragio, della fame, della sete e con le poche residue possibilità di
sopravvivenza, ora doveva anche convivere con l'ansia della presenza di Haydar,
un uomo di cui non si fidava più e col quale doveva condividere quello spazio
ristretto.
E fu proprio il giorno dopo,
mentre in piedi scrutava l'orizzonte in cerca di qualche aiuto, che il turco
colpì. Passandogli dietro con insospettabile agilità gli diede un possente
spinta che lo catapultò fuori dalla barca. Quando riemerse dall'acqua gelida
non gli restò che urlare
- capo Haydar, bastardo, hai
fatto lo stesso anche col comandante vero?
Il secondo, seduto al centro
della scialuppa, lo guardò quasi divertito, e senza alcuna emozione nella voce
gli rispose:
- che differenza fa per te
saperlo ?
- mi faccia salire, presto mi
aiuti la prego - disse il ragazzo
cercando di avvicinarsi alla scialuppa. Ma non appena cercò di issarsi
appoggiando le mani sul bordo della barca lesto l'altro estrasse il coltello
dalla tasca e con un colpo deciso lo ferì tagliandogli ripetutamente le dita.
Il giovane lasciò urlando la presa, scivolando nuovamente in acqua mentre una
grande macchia rossa cominciava a formarglisi intorno.
- Non c'è posto per due su
questa nave figliolo. Mi dispiace.
La rabbia livida negli occhi di
Ibrahim copriva persino il dolore alle mani ferite ed il suo sguardo esprimeva
un odio puro verso l'altro.
- Che Allah ti maledica, possa
tu pagare per la mia e le altre morti le pene di ogni inferno ….un giorno ti
ritroverò...- fu l'ultima cosa che
Ibrhaim riuscì a proferire prima di venire sommerso da un'onda più forte delle
altre.
Haydar lo osservò in silenzio
venire inghiottito dall'abisso, pulendosi la lama del coltello sui pantaloni.
Poi, dopo un paio d'ore, accertatosi della definitiva scomparsa del giovane con
un'ultima occhiata guardinga, si sdraiò nuovamente sul fondo della barca
stringendo il coltello tra le mani e chiuse gli occhi.
* * *
Il suo vicino di casa è una brava
persona.
Ma pur sapendolo Haydar limita i
rapporti ad un semplice buongiorno, scambiato di fretta quando i loro passi si
incrociano casualmente durante la passeggiata mattutina mentre l'altro prosegue
per il molo cui tiene attraccato il suo piccolo scafo a motore. Al saluto segue
immancabile il mutismo più assoluto, una forma di ignorarsi cui il vecchio è
abituato.
Perchè Haydar è così, non concede
confidenze a nessuno, nemmeno a quelli della propria famiglia. Almeno quel che
ne resta.
Di poco oltre i settanta l'uomo
vive solo. O meglio, abita una vita di serie B in una vecchia autorimessa
adibita a monolocale; un seminterrato
triste, a livello del marciapiede, nella prima periferia di Anadolu Kavagy,
l'ultimo centro abitato sulla riva asiatica prima che il Bosforo si apra nel
Mar Nero. Il resto della casa, uno di quei condomini di due appartamenti
risalente agli anni sessanta, è abitato dalla ex moglie, l'acida Feriha e dalla
figlia Harika con il bambino avuto qualche anno prima frutto di un mai
perdonato errore di gioventù.
L'edificio è posto all'inizio di
un lotto all'ingresso del paese e si affaccia da una parte sulla strada
principale che conduce ad Istanbul e dall'altra
su uno strapiombo di un paio di metri che finisce direttamente in mare.
Il terreno, lungo un centinaio di
metri, non è coltivato, eccezion fatta
per un minuscolo orto attaccato alla casa e per due filari di viti che si
sviluppano paralleli in lunghezza sino a finire a pochi metri dalla riva.
Ma l'acqua, in questo tratto fra
il Mar Nero ed il Mediterraneo, non è mai particolarmente mossa, sicchè nessuna
mareggiata ha mai minacciato il vigneto.
Haydar vive la sua incipiente
vecchiaia lavorando nel negozio di piccola ferramenta che gestisce quasi a
tempo perso da oltre dieci anni e cura i suoi filari non appena possibile. Non è la vecchiaia agiata e serena che aveva
sperato, ma dentro di sé lo sa, è così dal giorno di quel maledetto naufragio,
quando la sua vita aveva improvvisamente preso una piega non voluta e tutto
aveva cominciato ad andargli storto; la compagnia, dalle finanze già
traballanti, a causa del disastro era fallita e lui era rimasto senza lavoro.
Nell'ambiente marinaro, ancora così terribilmente superstizioso, lui era ormai
additato come una specie di lebbroso, lui era il sopravvissuto, l'unico
sopravvissuto, e nessun equipaggio era disposto a tenerlo a bordo.
A seguito di ciò i rapporti con
la famiglia si erano irrimediabilmente guastati e a nulla era servito tornare a
casa e interrompere le lunghe assenze di mesi come quando era imbarcato; come
se non bastasse anche la salute lo stava tradendo.
Un giorno il suo medico,
osservandogli le analisi e scuotendo la testa, aveva sentenziato: devi fare
del movimento, fai delle passeggiate, esci, cammina insomma.
L'uomo aveva annuito senza
proferire parola, com'era nel suo carattere, ed era tornato a casa con ben
chiaro in testa come comportarsi. Camminare, gli aveva prescritto il medico, e
lui avrebbe camminato. Tutti i giorni, due ore al giorno. Così avrebbe fatto.
Ma di andare in paese proprio non
aveva alcuna voglia. Sentirsi quegli occhi puntati addosso come spilli,
immaginare le voci dietro le finestre rivangare nel suo passato “ecco, vedi,
quello è Haydar, sai, quello divorziato...da giovane andava per mare”
oppure, “guarda come cammina con gli occhi bassi, si dice sia l'unico
superstite...”.
Si, li vedeva già complottare,
costruire chissà quali supposizioni sul suo conto.
Così aveva deciso una cosa molto
più semplice.
Si era comprato un paio di scarpe
comode, di quelle sportive per corsa leggera, e aveva disegnato nella sua mente
un percorso sul terreno dietro casa, un grande rettangolo i cui lati più lunghi
costeggiavano i filari di viti mentre i corti erano da un lato la strada,
dall'altro il mare. Poi aveva comiciato a camminare. Inizialmente l'erba alta
gli era stata d'ostacolo, ma passaggio dopo passaggio, giorno dopo giorno lui
l'aveva avuta vinta. Prima l'erba era scomparsa davanti ai suoi passi, poi la
sua ostinazione, che non temeva feste o ricorrenze, era stata premiata dal
progressivo comparire di un preciso sentiero sterrato. Passo dopo passo si era
creato una pista battuta, una propria corsìa personale sul quale impiegare due
ore ogni giorno. Mai un minuto di meno.
E come non c'era Pasqua o Kurban
che impedisse quel rito, per lui agnostico, così nessuna condizione
atmosferica, per quanto avversa, lo avrebbe fermato. Persino sotto alla neve,
quando magari già una decina di centimetri caduti durante la notte gli
ostacolava il passo, riusciva a identificare il tenue avvallamento della coltre
e a percorrere spedito il suo sentiero nonostante i fiocchi cadessero ancora.
Quest'anno settembre è cattivo.
La pioggia che cade quasi ininterrottamente da due settimane ricopre il cuore
di grigio. Persino la sponda europea, a poco più di un chilometro, sembra
scomparire tra quei colori smorti che si confondono all'orizzonte mescolando in
una unica tinta case ed alberi come fosse cenere all'interno di una stufa.
I mercantili continuano a
passare, in lenta processione, in ambo i sensi; ogni tanto una sirena lacera
l'aria per farsi dare il passo da qualche pescatore che si è avventurato nel
canale, poi, terminato l'eco disperso nelle anse del canale, torna il silenzio ed il monotono ticchettìo
della pioggia.
Anche stamattina Haydar sta
camminando, come sempre a quest'ora. L'acqua che cade non lo infastidisce più
di tanto, semmai è il fango sul sentiero a rompergli il passo rendendogli
l'equilibrio instabile.
Il terreno fradicio ormai non ha
più capacità di assorbimento e sul suo cammino la terra è solo fanghiglia
informe.
Giunto all'estremità del suo giro
Haydar si volta per tornare a casa, al coperto, e già pregusta il buon thè che
si prepareà di lì a poco.
Ma proprio tra la riva e i
filari, un piede gli sfugge ed inizia a scivolare verso il mare. Annaspando da
terra alla ricerca di una presa l'uomo infila le mani nel fango, ma ormai la
leggera pendenza lo sta portando
inevitabilmente a cadere in acqua. Con un ultimo sforzo artiglia il terreno
cercando un appiglio, ma è tutto inutile, le dita lasciano piccoli solchi nel
fango che subito si riempie di acqua piovana. Con un rumore sordo cade in mare
e viene sommerso dal nero. Immediatamente l'istinto prende il sopravvento e
l'uomo inizia a dibattersi e nuotare per raggiungere la riva che ha proprio lì,
ad un metro dalla sua mano.
Ma qualcosa lo ostacola, qualcosa
gli impedisce il movimento delle gambe. Terrorizzato Haydar guarda sotto di sé
cercando di togliersi di dosso il giaccone impermeabile. Ma anche questo gli è
impedito, qualche cosa che non riesce a definire lo sta gradualmente
immobilizzando. Sono alghe, rami di alghe che sembrano danzargli intorno,
portate dalle correnti e che gli si sono avvinghiate alle caviglie e intorno al
corpo. Hanno la forma di braccia, lunghe e potenti braccia nere, tra le quali
inorridendo gli sembra di riconoscere un volto, quello di Ibrhaim. E' un viso
ancora giovane, e si protende verso di lui con un ghigno che gli ricorda quello
di un teschio; le orbite vuote lo guardano dritto negli occhi e da quel vuoto
sembra uscire una voce:sono tornato a prenderti.
Il terrore lo attanaglia e cerca
disperatamente di divincolarsi. Ma la presa delle alghe resiste e un fascio gli
avvolge il collo e lo trascina ancora più giù, sempre più verso il fondo. Ormai
l'uomo è in preda al panico, quando ricorda di avere il coltello, quel
coltello, nella tasca.
Con un gesto disperato lo afferra
e febbrilmente cerca di recidere le erbe che lo avviluppano. Ma mentre sta per
accingersi a tagliare, dall'oscurità sottostante appare una macchia bianca, un
grande polipo che con mosse lente e sinuose, come fosse al rallentatore, con un
tentacolo gli si avvinghia al braccio e con un altro gli strappa il coltello
dalla mano.
Haydar capisce che non riuscirà
mai a liberarsi da questi fantasmi, ed è questa come una rivelazione, una
liberazione per l'uomo che smette di dibattersi.
L'ultimo pensiero di Haydar è per
i suoi filari di vite, si immagina a primavera con le forbici in mano a potare,
con l'aria tiepida di fine aprile che gli
accarezza il viso... poi un dolore acuto al petto lo scuote un'ultima
volta e tutto il resto diventa buio.