sabato 30 giugno 2012

VERSI


Buttati lì
come stracci
al macero
vesti consunte
che immaginarono
tempi migliori.

Gettati a mare,
alcuni affondano,
tornano al buio
da dov’erano nati
altri galleggiano appena
e resistono
a tempeste e uragani
altri ancora
giungono a riva
a vestire
e scaldare
di nuovo altre genti.

Versi
parenti lontani
in ricordo d’amore
o di rabbia.

PENSIERI LENTI



Da una pioggia all’altra,
troppo abile contorno
al mio dolore frantumato,
ritaglio pensieri lenti
a scomparire.

Alla finestra,
del mio fiato padrona,
appare autunno
e come di foglia
annerita all’acqua
io annuso l’umore
così l’animo mio soccombe
alla tua assenza
e docile
appeso al vetro
rimane a contare
goccia dopo goccia
quel che manca
al ritorno del sole.




L’OSCURO DELLA NOTTE

Notte che incombe
sciolgo pensieri
come fumo nel blu

LA CANDELA



L’ho accesa.
Cinquanta centesimi
di cera immobile
a consumare
fiato d’ossigeno
in penombra ecclesiale.

Riflette
dal vetro del Cristo disteso
quel tenue calore
come fosse vita
e non fiamma
a tremare

E Dio
-ed io-
come statua fermo
ad aspettare
muoversi l’aria.


ACQUA

Patagonia - Ghiacciaio Perito Moreno


Prima di nascere ero acqua,
come torrente sono cresciuto
e lago diventerò
ben prima che sia sera.

Così appaio
disperso tra nebbia e coraggio
non trovando la forza di scegliere
in quale mare
finalmente evaporare.

Solcato da vele colorate
o ferito da chiglie taglienti
non cambia il mio destino
scritto a inchiostro sulla neve
per ricordare
che prima di nascere
anche tu eri acqua.

L'ASSOLUZIONE

Il cappotto nero sfiorò quasi come una carezza il grande quadro appeso accanto alla porta di passaggio dalla sagrestia all’abside. Dalla tela lo sguardo pungente di uno dei quattro angioletti fissò l’osservatore con occhi verdi di bimba. Per la prima volta Don Giulio si accorse di quegli occhi;  uno sguardo fiero, non adatto al viso di un angelo, pensò lasciandosi dietro le spalle una scia d’aria gelida ed un impalpabile senso di disagio.
Entrando nel confessionale notò distrattamente le cinque o sei figure appartate tra i lunghi banchi allineati.
La penombra tra le arcate era appena rotta dalla luce del tramonto che entrava dal caleidoscopio di vetrate della chiesa; i vecchi mattoni rugosi rosseggiavano nell’atmosfera di quel pomeriggio di fine novembre, ma qualcosa di indefinito, come un cattivo presagio, rendeva la scena più cupa di quanto il suo animo fosse in realtà. Finite le confessioni, infatti, per quella sera non erano previsti rosari o messe da celebrare ed avrebbe finalmente potuto accomodarsi in poltrona e godersi la partita di Coppa Campioni in TV. Uno strappo alla regola con un bicchierino, forse due,  di Calvados, un buon libro e magari una breve incursione fra le pecorelle smarrite, e poco vestite, della rete.
Ripiegato accuratamente il cappotto su una sedia si sedette indossando la stola viola, ne pareggiò meticolosamente le estremità poi, dopo un ultimo sguardo fuori, chiuse la tendina e sospirando si accomodò; le dita bianche e secche intrecciate in grembo, il capo appoggiato di lato contro il legno, ed il pensiero alla succulenta cena preparatagli dalla perpetua.
Questo era Don Giulio la sera che tutto il suo piccolo universo di quartiere gli si sgretolò tra le mani come un castello di fango inaridito.
Dalla griglia si alternavano peccaminosi bisbigli, le usuali e stanche litanie di vecchie pensionate che confessavano le loro frustrazioni più che le loro azioni; le invidie temute e quelle mascherate, le bestemmie scappate di bocca, qualche furtarello al supermercato, anche qualche pensiero “malsano”, cui lui dentro di sé rivolgeva una quasi blasfema muta risata.
Aveva appena dispensato la solita sequela di Ave Maria a penitenza quando avvertì uno scricchiolio più pesante degli altri provenire dall’inginocchiatoio.
Sbirciando dalla tendina vide che sulle panche  non era rimasto nessuno e che quello sarebbe stato l’ultimo “cliente”. Con rinnovato vigore iniziò col rituale “Nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo. Amen”
- Padre, ho peccato – sussurrò una voce roca di uomo con un vago accento anglosassone.
- Dimmi, figliuolo, cosa hai fatto
- Padre, io ucciderò un uomo.
“Ecco il solito pazzo”  pensò il sacerdote  decidendo di dargli corda
- E quando succederà questo…omicidio?
- Stasera Padre
La voce dell’uomo era strana; pur nel suo parlare sommesso si avvertiva una sorta di ineluttabilità nel tono, come l’esplicarsi di una volontà altrui di cui il confessore fosse messo a conoscenza per cortesia più che per un reale perdono preventivo.
- Capisco. Vuoi provare a spiegarmi perché dovresti compiere un atto tanto criminale ?
- Si tratta di  una promessa che feci a me stesso e che solo oggi ho modo di mantenere.
- Dimmi, racconta – disse con poca convinzione il prete con la spiacevole sensazione di vedere sfumare il programma della serata. – abbiamo tempo.
- La storia risale a più di  trent’anni fa. All’epoca lavoravo come garzone di macelleria in un paese qui vicino e la mia gioventù scorreva liscia come l’acqua. La mia era una vita regolata, mai una parola storta con nessuno, anche i clienti mi stimavano per la mia cordialità ed il padrone mi amava quasi come un figlio, cosa che mi ripagava in parte del fatto di non aver mai conosciuto i miei genitori. Insomma vent’anni pieni di promesse da realizzare.
Don Giulio asseriva nel buio, ricordando anch’esso i propri vent’anni, le speranze, gli amori….ma i suoi pensieri vennero interrotti dalla voce implacabile dell’uomo
- Tutto andava per i verso giusto quando conobbi lei, la più bella ragazza che avessi mai visto. Cominciò a venire in macelleria con la madre, si erano trasferiti qualche tempo prima da un paese nelle vicinanze; poi giorno dopo giorno prese ad uscire anche da sola per le piccole spese di casa.
Don Giulio, insofferente alle lungaggini iniziava a spazientirsi ma si controllò limitandosi ad un semplice
- Continua
- Si chiamava Chiara, era bionda ed aveva sedici anni. Il volto era più bello di quello della Madonna, che Dio mi perdoni, ed il corpo era una vera esplosione di sensualità. La desiderai dal primo momento, padre.
Il prete dietro alla griglia iniziò a torturarsi le mani
- Ma c’era un problema, lei era fidanzata.
- Con chi ? –chiese improvvisamente gelido Don Giulio.
- Con un ragazzo di città, uno che aveva conosciuto frequentando la scuola; un tipo strano, si diceva, un piccolo bullo di periferia, geloso e vendicativo . Stavano insieme da un anno quando lei giunse al paese, ma non li vidi mai insieme. So solo che lei non lo amava, sono sicuro che non lo amasse; mentre ero invece sicuro di me e del mio sentimento per lei. Ogni volta che entrava in negozio mi si fermava il sangue nelle vene, non avevo occhi che per lei.
Il rintocco della campana interruppe per un momento la tensione che si era creata. L’eco metallico risuonò a lungo nelle campate ormai deserte
- Un giorno la incontrai, era un  pomeriggio d’aprile, una domenica. Ci salutammo fermandoci a chiacchierare poi la invitai a fare un giro fuori dal paese. Presi il  motorino e me la caricai dietro, come si usava una volta, in due sullo stesso sellino  Sentivo i suoi seni premermi contro la schiena mentre mi si avvinghiava addosso, e giuro che non so come riuscii a guidare senza cadere dall’emozione.
Dentro al confessionale Don Giulio ascoltava impassibile ad occhi chiusi.
- Dirigemmo verso i boschi sulle colline, felici ed emozionati come solo due ragazzi a quell’età possono essere. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito.
Ci fermammo sul ponte in sasso che scavalcava il rio, cercando di individuare i pesci che nuotavano nei rivoli sotto di noi.
Ad un tratto la vidi sporgersi  troppo e la afferrai bruscamente tirandola verso di me. Bastò quel gesto ad avvicinare i nostri volti sino ad avvertire ognuno il fiato caldo dell’altro. E baciarsi fu naturale, accarezzandosi con tenerezza  per un momento infinito che mi è rimasto impresso nella mente per tutto questo tempo.
Colto dall’improvviso desiderio di mostrarle il sentimento che mi ispirava decisi di andare a raccogliere qualche fiore e le dissi di aspettarmi lì, sarei tornato dopo pochissimo tempo con una sorpresa.
La lasciai sola per dieci minuti e al mio ritorno la vidi stesa a lato della strada. Corsi da lei impaurito cercando di capire cosa potesse essere accaduto; aveva un coltello piantato nel petto. Provai a sollevarla ma sentendola gemere la adagiai a terra con delicatezza sorreggendole il capo con la mano. Mentre gridavo il suo nome disperatamente, non sapendo come comportarmi, lei aprì gli occhi e mi guardò. Avvicinai il mio viso al suo e le dissi:
“Chiara, cosa è successo, dimmi, chi ti ha fatto questo…”
Aggrappandosi all’ultimo filo di vita che le restava mi sussurrò un nome…
- Quale…? QUALE ?? – disse il prete con voce spezzata
L’eco di quella domanda quasi urlata si spense nel silenzio della chiesa. Ma era un silenzio ben  più rumoroso di una cannonata.
- Padre, vuole davvero sentirmelo dire…? Era quello del suo fidanzato; non ci eravamo accorti di essere stati seguiti….
Don Giulio ebbe un gesto di diniego col capo, quasi volesse scrollarsi di dosso la tremenda verità. Ormai fuori era buio, nemmeno la luce tremula delle candele  sarebbe riuscita a penetrare l’oscurità nella quale era sprofondato il sacerdote.
- Cosa vuoi adesso da me…?
- Aspetti padre, finisco di raccontarle la storia. Appena pronunciato quel nome Chiara morì. Disperato  appoggiai il suo capo sulle mie ginocchia ed in un estremo tentativo di aiutarla ricordo che estrassi anche il coltello che aveva infisso nel petto. Mi resi immediatamente conto di essere in un terribile guaio; ero completamente sporco del suo sangue, quasi sicuramente eravamo stati visti lasciare il paese insieme, ed ero anche un provetto macellaio, uno che coi coltelli ci sa fare. Decisi in un solo momento, o forse fu il destino a decidere al mio posto. Portando con me il segreto dell’identità del suo  assassino fuggii abbandonandomi tutto dietro le spalle; ma dentro di me, davanti al suo corpo ancora caldo e con il bocca ancora il sapore del suo respiro giurai che un giorno sarei tornato per fare giustizia.
Mi capisce vero padre? Lasciai lo stesso giorno il paese, e giunto al porto più vicino mi imbarcai  sulla prima nave in partenza e me ne andai
Sulla nave nessuno faceva domande, c’era solo il lavoro a riempire i miei giorni, e di quello mi nutrivo sino alla spossatezza per non ripensare a Chiara.
Ero giovane, ero sveglio e in breve tempo divenni un buon marinaio.
Feci rapidamente carriera, sino a diventare comandante di un piccolo  battello turistico in America, poi di una discreta  flotta personale.
Ma da tutto quel mare navigato controvoglia, ogni giorno emergeva il volto di Chiara; il suo sapore dalla mia bocca non è mai andato via, nessuna salsedine avrebbe potuto toglierlo; ed il respiro di lei morente, notte dopo notte, si è trasformato in vento forte ed infine nella tempesta che mi ha riportato qui.
 Adesso.
 A mantenere la mia promessa.
Ora che anche lei sa la mia storia, credo riuscirà ad immaginare cosa voglio da lei.
Don Giulio rimase in silenzio.
Era finalmente giunto alla mèta, quella linea fittizia che separa il giusto dall’umano, con la sua quotidianità venata di tante piccole imperfezioni. Sapeva il prete di non avere scelte, né tempo da dividere. Non contava il pentimento di tanti anni prima, scambiato per vocazione, non contava la contrizione, né il pensiero che ogni sera correva a quel ponte in pietra, a quel pomeriggio caldo d’aprile, agli occhi verdi  di Chiara spalancati e sorpresi quasi a denunciare la colpa di un peccato non ancora commesso.
Chiara bianca ed eterea come un angelo,  l’angelo della Madonna, con la sua condanna giunta a scadenza, e del quale solo oggi accorgersi osservando quasi per caso quello sguardo affilato come spada.
Non contava il segreto tenuto a macerare per tutti questi anni in fondo al cuore,  era giunta l’ora di saldare il conto ancora dolorosamente aperto.
- Cosa vuoi che faccia...? - chiese a capo chino
- E’ semplice Giulio, io ho pagato prendendo a prestito una vita non mia – disse l’uomo scostando la tenda con una mano e tenendo un grosso revolver con l’altra - ora è tempo ch’io torni per mantenere ciò che promisi;  ma per questo devo essere libero, ed una sola persona può liberarmi: tu -  disse mentre gli si inginocchiava davanti e gli puntava la pistola al petto.
Don Giulio annuì guardando l’uomo e cercando di riconoscere nei suoi lineamenti quelli del ragazzo di tanti anni prima.
Poi capì, e chiudendo gli occhi ed alzando la mano sul suo capo iniziò a voce bassa a pronunciare solennemente:

Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine patris ……


CHIODI DI CAVALLO



Siccome avevo preso un altro brutto voto, mio padre mi disse:
- Va bene, allora oggi verrai con me a lavorare. Così vedrai come si fatica!
Mio padre faceva il giardiniere, e andava in giro per i giardini altrui. Andava a potar piante, rastrellare foglie e tagliare erba col suo potente tagliaerba.
Quel giorno doveva occuparsi niente meno del giardino dei terribili Lorchitruci.
I Lorchitruci erano la famiglia più ricca e potente della collina. A me facevano paura due cose di loro: il nome, perché mi veniva da pensare a degli orchi molto truci; e il giardino, appunto, perché era chiuso da una muraglia gigantesca dietro la quale chissà che cosa mai si nascondeva.
Quando richiudemmo il grande cancello dietro alle nostre spalle mi sembrò di entrare in un altro  mondo. Il vialetto inghiaiato si inerpicava dolcemente per la collina, fiancheggiato da una piccola siepe circondata da fiori di tutti i tipi. I prati intorno erano grandi distese di verde perfettamente livellato, risultato evidente del lavoro di mio padre nei giorni precedenti. In cima alla collina troneggiava la casa, una villa che però aveva quasi le sembianze di un piccolo castello medievale. Una grande torretta quadrata si innalzava verso il cielo da un angolo della costruzione, realizzata interamente in sassi sagomati. La posizione dell’edificio era stupenda, da lì si dominava tutta la valle sottostante. Accanto alla casa una piscina ovale nella cui acqua immobile si rifletteva la guglia della torre.
Scaricammo gli attrezzi dal furgone, ed io ebbi assegnata la piccola zappa per i lavori di rifinitura dell’aiuola accanto alla piscina, mentre mio padre si allontanò col tagliaerba verso il retro della casa.
Avevo iniziato da mezz’ora il mio lavoro e ragionavo tra me e me dicendomi che quel posto così incantevole non poteva essere abitato da esseri malvagi;  ero così profondamente assorto nei miei pensieri che trasalii al fragore che giunse dalla piscina. Mi voltai di scatto e la vidi. Era incantevole. Un viso dolce punteggiato da piccole efelidi, occhi chiusi per paura dell’acqua e capelli bagnati, cercava di raggiungere il bordo piscina nella mia direzione, nuotando impacciata e frenetica come fanno i cani, con le mani sott’acqua. Doveva essere la figlia dei padroni di casa; a tentoni trovò l’appiglio alla pietra, proprio davanti a me, con l’altra mano si asciugò gli occhi e mi vide.
- E tu chi sei ? – mi chiese uscendo dall’acqua
Non so cosa mi prese, forse fu il calore del sole di metà mattina, ma lì per lì mi inventai:
- Ehm..io sono...un archeologo
- E cosa stai facendo tra i miei fiori?
- Bè, è una lunga storia…e  poco interessante, sappi solo che da antiche mappe in mio possesso risulta che qui, proprio sotto a quest’aiuola, è sepolto un tesoro ….ma non devi farne parola con nessuno ! - risposi con voce misteriosa.
- Davvero..??
- Certo, ma c’è un’altra cosa importante che devi sapere: una antica leggenda racconta che chi troverà il tesoro, se non sarà baciato sulla bocca dalla prima persona che incontra, diventerà padrone della collina
- Ohhh, -rispose lei con occhi sorpresi- Ma il tesoro cos’è?
- Il tesoro….ehm…è – rimasi in sospeso non sapendo cosa inventare – è un vecchio monile realizzato con i chiodi che tenevano fissato un drago alla porta di questo castello – dissi indicando la sua casa.
Nel mentre mi frugavo con indifferenza nelle tasche alla ricerca di quel ciondolo realizzato da mio padre con i chiodi di cavallo. Era una sua vecchia passione, ed era molto bravo in questo; piegava con una pinzetta i piccoli ferri appuntiti e dalla grossa testa quadrata, dando loro gradevoli forme arrotondate ed unendoli in combinazioni originali. A volte erano fiori, a volte ciondoli, o semplici catene; quel giorno, uscendo dalla cantina, mi ero infilato in tasca uno di quei piccoli manufatti, costituito da tre semplici chiodi di ferro piegati ad arte e saldati.
Facendo finta di niente lo estrassi dalla tasca nascondendolo nella mano, continuando a frugare nel terriccio smosso dei fiori. Nel frattempo anche lei si era messa a frugare per aiutarmi. Fu un gioco da ragazzi farmi comparire dopo poco tra le mani il ciondolo sporco di terra:
- Eccolo, finalmente !! - esclamai a voce alta
Subito si avvicinò a me con la tipica curiosità femminile che ben avrei imparato a conoscere in seguito.
Forse fu in quel momento che mi innamorai di lei, del suo sguardo stupito, con quei grandi occhi verdi, che mi osservavano con ammirazione tenere il ciondolo tra le mani, quasi avessi tra le dita una delle meraviglie del mondo. Non dimenticherò mai la sua innocente sorpresa, e la mia reazione fu da giovane gentiluomo.
- Tieni – le dissi -  te lo dono, fanne ciò che vuoi
Lei mi guardò ancor più stupita, e mentre le consegnavo il prezioso bottino mi disse
- Oh, grazie, davvero. – rispondendomi con voce sognante e guardando l’oggetto tra le sue mani.
- ho pensato che se tu vivi qui sia giusto che resti a te, così nessuno potrà mandarti via da casa - le dissi
Dall’interno giunse una voce di donna con tono autoritario
- Valentina, hai finito in  piscina ?  dobbiamo andare
- Si mamma, arrivo subito - disse la bambina, affrettandosi verso la porta. Ma giunta qui si fermò improvvisamente, come avesse dimenticato una cosa; tornò precipitosamente sui suoi passi, ed in punta di piedi mi baciò sulla bocca dicendomi
- me l’hai regalato…ma non si sa mai

* * * * *

- Bambini, adesso è ora di dormire, vero?
- Uffa, dài papà, continua con la storia dei chiodi di cavallo, per favore
- Continuerò domani sera, su,  a nanna
-  Va bene, uff…
Richiudo la porta e mi avvio verso la cucina. Tu sei lì che stai ancora sparecchiando, ti volti verso di me e  con sguardo interrogativo mi chiedi:
- dormono già ?
Sorrido guardandoti; non sei cambiata Valentina, gli stessi grandi occhi verdi curiosi, le stesse efelidi sparse sul volto, ed al collo sempre quel vecchio ciondolo di chiodi di cavallo appeso ad un laccetto di cuoio.
Dalla finestra della torre la valle sotto è bellissima, stasera.



50 ANNI



50 ANNI
Campo di concentramento di Mauthausen, aprile 1995

Tre giorni di vento
Signore
tre giorni soltanto
                        Il primo in coro a pregare
                        in ginocchio a pregare
                        i soldati a pregare
                        quest’ultima croce
                        da sola
                        a spezzarci la voce

Tre giorni di vento
Signore
tre giorni soltanto
                        Il secondo a guardare
                        con gli occhi sbarrati
                        in silenzio a guardare
                        le file accorciarsi sul prato
                        ed il fumo salire
                        lontano nel cielo velato

Tre giorni di vento
Signore
tre giorni soltanto
                        Il terzo da soli a salire
                        la scala più dura
                        la scala che porta a morire
                        il fiato più corto ogni momento
                        quel fiato diventi
                        soltanto tre giorni di vento       

1978



Noi non fummo mai
prima linea,
o frontiera nascosta
né volo audace
o bandiera su vetta

Solo bella scrittura
di intenso sapore mediterraneo
fenici e sumeri
orlando e pulcinella
pilato e balanzone

come potevamo
sapere, sognare, provare
o credere
in croci profonde
che solo adesso
ci scottano la pelle

quando eravamo puri
e non c’era tempo
per essere diversi

DOPO L'AMORE



Voltando la testa
leggermente
ti vedrò addormentata
in penombra
e tacerò di noi
anche con me

Ti toccherò le labbra
e la fronte
senza svegliarci
così sarà tempo
o sarà sogno
o primavera